E’ fatale che la Storia debba per la propria natura stessa confrontarsi con il giudizio dei posteri che vivono tutt’altre realtà, e ciò può spiegare come figure ai nostri occhi ritenute deplorevoli siano state ai loro tempi emblematicamente accettate, anzi gratificate con tributi morali e materiali. E’ il caso di Giovanni Acuto, in effetti John Hawkwood (1320-1394), nato nell’Essex da una famiglia di conciatori di pelle e diventato uno dei più famosi condottieri del XIV secolo. Per dirla con semplicità, l’Acuto era un criminale a tutto tondo, però in tempi in cui l’andare per il sottile non costituiva prassi usuale e condivisa. La penisola chiamata Italia, fitta di staterelli rissosi, aveva da tempo affidato alle milizie mercenarie, spesso straniere, il compito di combattere le proprie guerre. Il risultato era che questi eserciti raccogliticci, pieni di delinquenti di ogni risma, imperversavano sui territori sotto qualsiasi bandiera, passando con facilità da una parte all’altra a ogni mutare di offerta in denaro. Quello che ancora si chiamava John Hawkwood esordì nel mestiere delle armi sotto il proprio re Edoardo III impegnato nella “Guerra dei cent’anni”. Prese parte alla battaglia di Crésy e nel giro di due lustri venne fatto cavaliere sul campo di battaglia di Poitiers. Nel 1362 arrivò in Italia alla testa di un centinaio di straccioni armati fino ai denti, per mettersi al servizio di Alberto Sterz, capo della Compagnia Bianca del Falco, che stava combattendo per il marchese del Monferrato contro Amedeo VI di Savoia.
E’ qui che John divenne Giovanni e Hawkwood si trasformò in Acuto, mentre la sua soldataglia si distingueva nel predare e violentare, cosa normale in ogni epoca e per qualsivoglia conflitto, ma con un che di particolare da far sì che il condottiero inglese, che non avrebbe mai imparato l’italiano, venisse soprannominato “lo scannatore”. Ormai stanziale in Italia, nel cui marasma aveva trovato la propria ideale collocazione, nel 1364 combatté per Pisa contro Firenze, per poi passare a Milano, al servizio di Bernabò Visconti, che stava combattendo contro il papa. Con 4000 uomini devastò i territori pontifici, radendo al suolo in particolare conventi e chiese, e trucidando intere comunità inermi. Fallito l’ambizioso tentativo di sconfiggere in contemporanea Pisa e Firenze per conto del Visconti, con indifferenza passò al servizio di quel papa di cui aveva da poco finito di massacrare i sudditi, e ne divenne il braccio armato, ricevendo in cambio la signoria su Bagnacavallo, Conselice e Cotignola. Con il consueto zelo sanguinario soffocò una rivolta antipapale a Faenza, i cui abitanti vennero dispersi tranne le donne giovani, date in pasto alla truppa, e stessa sorte toccò a Cesena, dove furono trucidate 2500 persone. Leggenda vuole che, al cospetto di due dei propri uomini intenti a disputarsi una suora, tagliasse con un colpo di spadone a metà la poveretta, perché ognuno godesse la propria parte, e, visto il personaggio, può essere che la realtà non sia stata troppo difforme dal racconto. Poiché il papa era un cattivo pagatore, l’Acuto tornò con la consueta disinvoltura al servizio di Bernabò Visconti, che addirittura gli offrì in sposa la propria figlia Donnina, che pare fosse un fior di ragazza. Con il Visconti però l’intesa fu breve, e diventa a questo punto difficile seguire per intero le evoluzioni di questo condottiero dalla volubile condotta, passato anche al servizio degli Angioini napoletani. Nel 1381 tornò in Inghilterra, dove Riccardo II gli diede il titolo di baronetto, per rispedirlo in Italia come ambasciatore presso il papa, e resta da immaginare di quale attività diplomatica possa essere stato capace. Sta di fatto che il 1387 lo ritrovò sul campo di battaglia, a Castagnaro, contro i Visconti. Sempre più in là con gli anni, ma insaziabile, si mise al servizio di Firenze, divenendone capitano generale, in pratica capo assoluto dell’esercito. Nel 1390 lo si rivide sul campo di battaglia ancora contro i Visconti, le cui milizie però lo batterono ricacciandolo in Toscana. Meditava di ritirarsi in Inghilterra, quando venne stroncato da un attacco cardiaco. Firenze gli tributò funerali principeschi e lo seppellì in Duomo, da dove, su richiesta di Riccardo II d’Inghilterra, venne poi definitivamente trasferito in patria. Nel Duomo tuttavia rimangono i cinquanta e passa metri quadrati di affresco dipinti nel 1436 da Paolo Uccello perché venisse perpetuata, a nostro giudizio incomprensibilmente, la memoria “gloriosa” dello scannatore venuto d’oltre Manica. Figlio del proprio tempo, Giovanni Acuto si colloca a metà dei due secoli che vanno dalla stesura della Divina Commedia di Dante a quella de “Il principe” del Machiavelli. Se è fuor di dubbio che, fossero stati contemporanei, l’Alighieri con la propria intransigenza lo avrebbe sprofondato all’Inferno, è altrettanto certo che invece Machiavelli provò ammirazione per la fama di questo guerraiolo sanguinario, come del resto alta e incondizionata l’ebbe per un altro criminale del suo tempo, cioè quel Cesare Borgia, figlio del “papa che teneva famiglia”, che fu il suo riferimento morale, ammesso che di morale si possa parlare in quel Rinascimento machiavellico ricco di opere d’ingegno irripetibili e di crimini invece ripetibilissimi, e perciò con larghezza in ogni tempo ripetuti.