Essere governati dagli stranieri non è il meglio che possa capitare a un popolo, visto che i loro interessi saranno sempre al servizio del paese d’origine a scapito di quello occupato. E’ tuttavia certo che il peggio sia stato avere per padroni gli spagnoli: perfino i musulmani, dopo gli scannamenti e gli stupri della conquista, a cose fatte hanno saputo essere meno inaccettabili, il che è tutto dire. I dominatori spagnoli hanno sempre portato con sé un bagaglio di inefficienza, protervia e corruzione, così, mentre a nord della penisola un ipotetico Lorenzo Tramaglino ce la metteva tutta per procurare a generazioni di studenti più di un secolo e mezzo di “Promessi sposi”, a Napoli i viceré spremevano un’economia già poco succosa per finanziare gli eserciti spagnoli che, nel centro dell’Europa, combattevano nel nome della Controriforma cattolica la “Guerra dei trent’anni” (1618-1648) contro gli eserciti della Riforma protestante ai quali, per antagonismo contro la Spagna, si era affiancato quello della ormai cattolica Francia, che in casa propria aveva risolto le dispute religiose con la strage degli ugonotti protestanti nella “Notte di San Bartolomeo” (24 agosto 1572). A Napoli nobiltà e clero non pagavano tasse, che invece venivano pagate dal popolo, vegetariano non per scelta salutista, ma per miseria.
Così, per cavarne il cavabile, nel giugno 1647 il viceré duca d’Artos introdusse una gabella sulla frutta. Fu allora che entrò in scena Tommaso Aniello, detto Masaniello, più contrabbandiere che pescivendolo, incendiando il casello del dazio. Aveva ventisei anni, ed era sposato con una florida bellezza chiamata Bernardina Piva, nota fra i vicoli un poco per i seni sontuosi e un poco per le divagazioni extraconiugali di cui Masaniello dava l’impressione di non accorgersi. L’atto compiuto da Masaniello sarebbe potuto restare una istintiva reazione all’ingiustizia, se quella che passò come “rivoluzione dei fichi” non avesse trovato il proprio ideologo in Giulio Genoino, ottuagenario e controverso personaggio che in passato aveva ricoperto cariche di rilievo, prima di venire incarcerato come agitatore politico. Genoino, da qualche anno tornato a Napoli dall’esilio, comprese che l’occasione era ghiotta, e diede parole allo stentato vocabolario di Masaniello divenendone il suggeritore. Il 6 luglio la rivolta divampò. I “lazzari” di Masaniello presero d’assalto il palazzo del viceré devastandolo. Genoino, che aveva stilato una carta dei diritti in cui elencava rivendicazioni quali l’abolizione della gabella sulla frutta e la parità fra nobili e plebe nel governo della città, riteneva che Carlo V avesse in passato dispensato i napoletani dal pagamento delle gabelle, e fece sì che Masaniello pretendesse che il relativo documento venisse reso pubblico. Poiché il viceré tergiversava, i lazzari saccheggiarono i palazzi dei nobili. Masaniello era ormai il padrone della città, e si cominciò a ritenere che fosse un santo inviato da Dio per proteggere il popolo. Trovato il nuovo Messia, Napoli si procurò anche il Sinedrio deicida, ma i sicari mandati dai nobili per ucciderlo gli sparano cinque colpi di archibugio mancandolo. La vendetta fu sanguinosa. Masaniello, ormai ritenuto invulnerabile, arringava la folla dal balcone di casa, non prima di avere assunto atteggiamenti pensosi che lasciavano credere che fosse in comunicazione con lo Spirito Santo. L’uomo però era troppo debole e incolto per reggere. Il viceré lo prese con le buone, invitandolo a palazzo dopo avergli donato una veste d’argento. Fu dentro quella veste, con al braccio Bernardina stretta dentro un vestito frutto del saccheggio di palazzo Maddaloni, che si presentò al viceré per portargli le richieste di Genoino. Accettò una collana del valore di 3000 scudi, ma, appena uscito da palazzo, si spogliò, gettò le scarpe e arrivò a malmenare il vegliardo Genoino, che con sgomento stava vedendo la propria creatura sfuggirgli di mano. Il 13 luglio fermò la carrozza del viceré che si stava recando in Duomo, sproloquiò di amore per lui e per il re di Spagna e lo abbracciò, per dopo andare a orinare contro un muro. In chiesa si accoccolò ai piedi del viceré per meglio poterglieli baciare e riprese a sproloquiare di fedeltà alla corona. Durò così fino al 16 luglio, quando nuovi sicari, con una mira migliore dei precedenti e forse mandati da Genoino, lo centrarono con quattro colpi di archibugio. Gli venne mozzata la testa, e il corpo finì gettato in un canale in cui si versavano gli escrementi, mentre Napoli esplodeva di giubilo. Ma in capo a un giorno ci fu il ripensamento, e al cadavere, recuperato e lavato, la testa venne ricucita, per dargli funerali solenni fino alla sepoltura nella Basilica del Carmine. Tutto tornò alla normalità, la gabella sulla frutta venne ripristinata e Bernardina mise le proprie prorompenze fisiche al servizio di in un bordello, nel quale la soldataglia spagnola andava per sottoporla a ogni umiliazione. Il tempo parve seppellire le cose, ma nel 1799 il re di Napoli, Ferdinando IV di Borbone, tornato sul trono dopo la caduta dell’effimera Repubblica Partenopea che l’aveva costretto all’esilio e perciò carico di livore verso le rivoluzioni, in una delle quali, quella francese, sei anni prima sua cognata Maria Antonietta aveva perduto la testa, ordinò, oltre a un centinaio di impiccagioni, che il corpo di Masaniello venisse bruciato e disperso per non lasciare al popolo una reliquia rivoluzionaria. Come dire che con la Storia non si è al sicuro neppure dopo morti.