14. “VESPRI SICILIANI”: IL PIZZICOTTO CHE HA FATTO CAMBIARE PADRONE ALLA SICILIA

 Se la Storia riesce a volte ad apparire buffa non è perché lo sia davvero, ma per il modo in cui ne vengono trasmesse le vicende.  Per fare un esempio, generazioni di studenti, immersi nella melassa del patriottismo costi quel che costi, hanno appreso che la sera del 30 marzo 1282, al vespro, i siciliani hanno scritto una fulgida pagina di storia patria insorgendo contro la dominazione franco-angioina, infiammati dall’oltraggio patito da una dama di Palermo che si stava recando a messa con il marito.  Ecco come, con dissacrante ironia, descrive l’episodio quel grande narratore che è stato Vittorio G, Rossi: “La Rivoluzione del Pizzicotto partiva da una grande ragione ideale: un soldato francese aveva pizzicato il sedere a una giovane sposa siciliana, ma accanto alla giovane sposa siciliana c’era il suo altrettanto giovane marito, e il soldato francese pizzicante aveva inspiegabilmente trascurato il piccolo particolare di quella presenza.  I francesi sono sempre galanti, ma i siciliani sono molto gelosi delle loro donne e dell’onore connesso con esse; e poi in quel caso specifico c’era il fatto visibile, materiale, sperimentalmente verificabile del pizzicotto sul sedere.” Pizzicotto o, come invece pare, perquisizione troppo intima fra le vesti della signora, il suo autore, che si chiamava Drouet, ne è uscito morto ammazzato, trafitto dal marito della dama.  E’ sul dopo che calano le nebbie dell’equivoco. Palermo non era una città qualunque: Federico II (1194-1250), nipote del Barbarossa, ne aveva fatto la capitale di un regno organizzato, che altro benessere avrebbe avuto se il sovrano non fosse stato per anni costretto a difenderlo dall’ostilità di un papato che da sempre altro non faceva che contrastare qualsiasi forma di potere che non fosse il proprio, nel caso specifico ispirando ogni sorta di ribellione contro il potere imperiale degli Hohenstaufen, che per rendere più agevole la cosa venivano con sistematicità scomunicati. Federico II era un personaggio complesso, amante delle arti, egli stesso poeta e scrittore, magnanimo e insieme crudele di una crudeltà forse più figlia dei tempi che della sua reale indole di nordico disincantato, innamorato di quella penisola rissosa dove pure era nato, a Jesi, in un accampamento militare, partorito da una Costanza d’Altavilla già in là con gli anni erede dei dominatori normanni.

i vespri siciliani

La Sicilia rappresentava il cuore del suo regno, e la Puglia il suo gioiello, come dicono le tante testimonianze disseminate su questi territori. Lui morto, era toccato ai figli Corrado IV e Manfredi preservare la sua opera.  Deceduto di malaria il primo, fu Manfredi a cercare di contrastare il papato, che era riuscito a scatenargli contro l’esercito di Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX.  Manfredi affrontò il nemico a Benevento (1266), venne sconfitto e cadde in battaglia.  Due anni dopo l’Angiò, che aveva portato la capitale del regno a Napoli decretando perciò la decadenza di Palermo, catturò l’ultimo degli Hohenstaufen, l’appena sedicenne Corradino, e lo fece decapitare sulla Piazza del Mercato. Ma se questi Hohenstaufen erano legati all’Italia sentendosene chi poco e chi del tutto parte, Carlo d’Angiò la considerava terra di conquista conquistata, e tale prese a trattarla, mandando in malora l’amministrazione, le finanze e le opere pubbliche lasciate da Federico II.  I soldati francesi la facevano da padroni, e l’episodio del “Vespro” altro non fu che l’ultimo dei tanti soprusi che la popolazione siciliana aveva dovuto subire. Ammazzati quanti più angioini possibile, stanandoli casa per casa e, per riconoscerli, imponendo loro di dire “ciceri”, cioè ceci, passando a fil di spada chi invece diceva “siseri”, alla francese, i siciliani si trovarono a dover fronteggiare la reazione di Carlo d’Angiò.  La ribellione, sfociata in guerra, trovò il proprio eroe in Ruggero di Lauria, ma il suo epilogo sarebbe stato tragico senza l’appello rivolto dai capi rivoluzionari al re d’Aragona, Pietro, marito di Costanza, figlia di quel Manfredi caduto a Benevento e perciò nipote di Federico II; in pratica, e qui sta il buffo, offrendosi a un altro straniero, con tanti saluti per la fulgida pagina di storia patria. La guerra che ne seguì fu un guazzabuglio politico e militare, cui non mancarono parentesi di ridicolo, quali la sfida a singolar tenzone fatta dal settantenne Carlo d’Angiò a Pietro d’Aragona, peraltro già con prontezza scomunicato dal papa di turno.  Il duello non ebbe ovviamente luogo, e in capo a poco i contendenti morirono di altra morte, lasciando la soluzione della questione siciliana agli eredi, e quelli aragonesi, divisi da profonde rivalità, anche se vittoriosi sul campo si impegnarono a restituire ai francesi l’isola alla morte del momentaneo sovrano Federico d’Aragona, il tutto sancito nel 1302 dalla “Pace di Caltabellotta”, che con tali premesse durò quel che poteva durare, cioè poco. Diplomazie ed eserciti, infatti, proseguirono la diatriba fino al 1372, quando, ormai perduta la memoria della dama pizzicata, gli aragonesi ebbero definitivamente la meglio, con i siciliani, spettatori ampiamente paganti in vite umane, relegati a comparse di quel “crogiuolo politico” che è sempre stata l’isola fino ai nostri giorni.  La differenza sta nel fatto che in passato erano gli altri a decidere chi dovesse governarli, mentre adesso decidono da soli, con i risultati che tutti possono vedere. 

 

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