5. GALATEO DI GUERRA: DOPO LA BATTAGLIA SI RUBA AI MORTI

La Storia non è disciplina per anime belle, a farla ci si sporca.  Chi per motivi anagrafici ha goduto del privilegio di studiare l’Iliade a scuola, dal primo verso all’ultimo, non può non avere provato un moto di repulsione davanti all’abitudine degli eroi omerici di spogliare delle armi i nemici uccisi per farne bottino.  La guerra di Troia, così come la conosciamo, potrebbe non essere mai stata combattuta, e rappresentare piuttosto la sintesi dei conflitti causati dal controllo delle vie commerciali dell’epoca, ma la Storia ha saputo rimediare facendosi contenitore di un numero incalcolabile di altri tragici eventi, e i campi di battaglia hanno visto ogni volta, oltre che il concentrato di crudeltà, vessazione e vilipendio sui vinti e sui deboli, anche lo scempio sopra i cadaveri. Da sempre il guerriero, mandato a rischiare la propria vita per togliere quella del nemico, a cose fatte ha cercato l’immediato tornaconto frugando i morti, consapevole di potere da un giorno all’altro subire il medesimo destino, così come da sempre le popolazioni civili, nell’attenuante di essersi viste distruggere i raccolti, predare i viveri, radere al suolo le abitazioni, sottrarre i beni e gli animali e violentare le donne, hanno cercato di rivalersi sui beni nascosti nelle uniformi dei caduti che di lì a poco avrebbero concimato i loro campi, sorrette dalla necessità e dall’ira, oltre che dal sospetto mai del tutto infondato che almeno parte di quei beni fossero stati sottratti con la forza ad altri poveracci inermi, colpevoli della sola colpa di esistere e di trovarsi sulla strada delle truppe.

francesco falascone

A questo proposito sono emblematiche le testimonianze raccolte sul teatro di una famosa battaglia, quella di Waterloo, che ha chiuso la carriera del parvenu di Ajaccio e cancellato il suo ridicolo impero a gestione familiare.  Siamo nel 1815, ma quanto riferito potrebbe essere esteso a qualsiasi altro evento bellico, lontano nel tempo o ancora in via di svolgimento. Dopo che 200.000 uomini si erano affrontati sopra neppure sedici chilometri quadrati di terreno, lasciando almeno 15.000 morti e 25.000 feriti, molti dei quali sarebbero deceduti in seguito, è iniziata la caccia al bottino, fra i nitriti dei cavalli agonizzanti che scalciavano aria, i gemiti dei moribondi e gli spari di coloro che ponevano fine con imparzialità alle sofferenze degli uni e degli altri. “Sarebbe ridicolo nascondere che quando il sanguinoso lavoro della giornata è finito, il primo desiderio del sopravvissuto è di assicurarsi un po’ di ricompensa per i pericoli che ha corso” ha ammesso il caporale dei dragoni leggeri inglesi Farmer, ricordando la notte spettrale in cui aveva visto un soldato prussiano pugnalare un ferito inglese proprio alleato che non voleva lasciarsi derubare, mentre un altro soldato inglese doveva respingere a sciabolate i saccheggiatori che cercavano di mettere le mani su un colonnello in agonia, nello scenario allucinato in cui moltitudini di tristi emuli degli eroi omerici, anziché riposarsi e rifocillarsi dopo la carneficina, si aggiravano fra le tenebre spogliando vivi e morti di denaro, orologi, gioielli, come ha anche testimoniato, fra gli altri, l’alfiere Keowan che, sfinito, cercava di non addormentarsi per timore che i razziatori lo uccidessero per derubarlo, come stava accadendo sull’intero campo di battaglia.  Tornati finalmente ai rispettivi alloggiamenti i militari, era stata la volta dei contadini belgi, che avevano dovuto accontentarsi dei vestiti e degli stivali dei caduti, estraendo a colpi di pialla i denti d’oro prima di scavare le fosse comuni dove gettare i cadaveri ormai nudi, e di accendere i falò dentro i quali si sarebbero consumate ammorbando l’aria per chilometri le carcasse dei poveri cavalli nati, vissuti e morti in funzione della stupidità degli uomini, il tutto al cospetto dei feriti ancora in grado di difendersi che si sottraevano allo scempio languendo nell’illusione che qualcuno si occupasse di loro in un ospedale da campo, dove altro non si faceva che amputare e salassare nella speranza di contendere quei corpi straziati alla falcidia delle setticemie. Questo di Waterloo è solo un esempio rafforzato dalla documentazione lasciata dai sopravvissuti, ma tutta la Storia è stata messa insieme così, passo dopo passo e battaglia dopo battaglia, con l’uomo che già non è buono di suo e che in guerra sa dare il peggio, sempre al bivio fra essere macellaio e diventare carne da macello.  Un’uniforme, un’arma e una bandiera, e tutto ciò che è stato della sua vita, vita vera, vita di individuo e non di entità numerica, finisce gettato dietro le spalle, nella paura e nell’eccitazione, il frantumare esistenze cercando di non venirne frantumato, cannibale di vitalità e predatore di prede minime e di dignità, i triboli delle cose passate di mano a testimoniare i triboli degli umani.  Dopo subentrano il pacificarsi e il tornare alla normalità, o il non tornarvi perché anche la morte è pacificazione; ma chi è sopravvissuto si trova condannato a convivere con la possibilità di ricominciare, tornare a separarsi dagli affetti e dalla normalità per ritrovare zanne e artigli, perché la Storia è implacabile nel riprodurre se stessa, e pulsa nell’attesa mai illusoria di altre notti di delirio macabro, nel succedersi senza tregua di tutte le Waterloo del mondo.

 

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