7. LITTLE BIG HORN, CATASTROFE ANNUNCIATA DI UN “NON GENERALE” VANESIO CHIAMATO CUSTER

Numerosi dipinti illustrano la battaglia di Little Big Horn (25 giugno 1876), con il “generale” Custer (i839-1876) che combatte con sciabola e revolver contro orde di pellerossa, prima di cadere da eroe.  Difficile dire come siano andate veramente le cose, visto che l’unico superstite di quella disfatta fu Comanche, un cavallo, anzi è possibile che Custer sulla collina che da allora ha preso il nome di Custer Hill sia arrivato moribondo, colpito poco prima nel corso di una scaramuccia con una decina di indiani mentre tentava di guadare il Little Big Horn alla testa dei propri uomini. Il particolare della sciabola è invece con certezza falso: quel giorno i cavalleggeri del 7° avevano lasciato le proprie sui carri delle salmerie, il che la dice lunga sull’avvedutezza del comandante, essendo la sciabola fondamentale durante le cariche di cavalleria dell’epoca, né Custer indossava l’uniforme, al solito combinato come un fenomeno da baraccone, giacca scamosciata con le frange, pantaloni di pelle e chioma sciolta sulle spalle. Spinto da una inguaribile sopravvalutazione di se stesso, aveva anche rifiutato due mitragliatrici Gatling e quattro squadroni di cavalleggeri (160 uomini) che il generale Terry, suo diretto superiore, gli aveva offerto, per dirigersi alla cieca verso un accampamento di Sioux e Cheyenne senza conoscerne né l’ubicazione né la consistenza, dopo avere diviso in tre le proprie forze per una vaga manovra di avvolgimento nei confronti di un nemico di cui nulla gli era noto.  Il risultato fu che, grazie alla somma delle sue balordaggini, un fiumiciattolo come il Little Big Horn venne trasformato nell’oceano di inchiostro che avrebbe creato il mito. Custer era uscito da West Point ultimo del proprio corso, 33° su 33.

custer

Era stata la Guerra di Secessione fra Nord e Sud (i861-1865) a mettere le ali alla sua carriera, facendolo passare, a causa della penuria di ufficiali superiori fra le file nordiste, da capitano a generale di brigata onorario, onore che cessò alla fine del conflitto, quando venne retrocesso al grado di tenente-colonnello. Insofferente alla disciplina e vanitoso, vestito con uniformi che personalizzava con profluvi di alamari dorati degni di un circo equestre, è nelle Guerre Indiane che cercò sbocco al proprio arrivismo.  Le tribù pellerossa, incalzate dai cacciatori di bisonti e dai cercatori d’oro, entravano e uscivano dai sempre più ristretti territori loro assegnati, a volte per atavismo guerriero, ma più spesso a causa della pessima gestione da parte dei funzionari corrotti che avrebbero dovuto occuparsi di loro.  Va tuttavia ricordato che, nonostante la rivisitazione figlia dei sensi di colpa si sia spesa per descrivere i nativi nord-americani come confraternite di mistici illuminati in armonia con la natura, i pellerossa vivevano in tribù perennemente in guerra fra loro, crudeli di crudeltà esplicita, diventati vittime perché incappati in un nemico dalla superiorità tecnologica annichilente e devastatrice del territorio, e il fatto che stessero difendendosi dagli invasori è appendice di scarsa rilevanza agli occhi della Storia, che ha sempre giustificato qualsivoglia forma di dominio sulle società meno progredite, genocidio e colonialismo compresi. Custer, che definiva gli indiani “esseri di razza inferiore”, cercò di distinguersi, ma superficialità e presunzione finirono per portarlo, nel 1867, davanti alla Corte Marziale per grave insubordinazione e comportamento vessatorio nei confronti dei propri soldati, con il risultato di farlo sospendere da comando, grado e stipendio per un anno. Per risalire la china nel 1868 attaccò con il 7° Cavalleggeri, a Washita, il campo cheyenne di Caldaia Nera, uccidendo 103 indiani, catturandone 53 e facendo abbattere 800 cavalli.  Fra i prigionieri si trovava un gruppo di ragazze avvenenti, che secondo la logica di ogni guerra vennero distribuite per i piaceri privati degli ufficiali.  Custer scelse Monah-see-tah, figlia di Caldaia Nera, che utilizzò anche come interprete per ottenere il rilascio di due donne bianche rapite dagli indiani, e che nelle proprie agiografiche memorie ricorderà con accenti entusiastici, suscitando l’irritazione della altrimenti devotissima moglie Libbie. Il successo di Washita alimentò le ambizioni di Custer che, ormai popolare, pensò di aspirare alla carica di presidente degli Stati Uniti.  Per arrivarci aveva bisogno di accrescere il proprio prestigio con una vittoria sul campo, ed eccolo perciò al guado del Little Big Horn, circondato da 5000 guerrieri di cui neppure aveva sospettato la presenza, dopo avere diviso in tre colonne i 700 effettivi del 7°. Fu la colonna del maggiore Reno a subire il primo attacco, che costò 50 morti.  Poi i pellerossa, al comando di Cavallo Pazzo, Gall e Due Lune investirono la colonna di Custer annientandola.  I 202 cavalleggeri uccisi (altri 26 non furono più ritrovati) vennero scotennati dai guerrieri; successivamente arrivarono le donne, che raccolsero armi e selle, denudarono i cadaveri e li castrarono.  Custer venne trovato nudo al pari degli altri, ma intatto, un colpo al cuore e uno alla tempia. Tolto il suo, i corpi degli altri giacciono sepolti esattamente dove sono caduti, sotto piccole lapidi bianche, a testimoniare la catastrofe provocata da un pessimo comandante, né possono i quadri e i monumenti che ne esaltano l’eroismo smentire la sua inadeguatezza militare e umana.

 

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