Dopo l’euforia risorgimentale l’Italia, nella scia delle altre nazioni europee, aveva cercato quel “posto al sole” che avrebbe dovuto aiutarla a fronteggiare i problemi di sottosviluppo che l’affliggevano. L’apertura del Canale di Suez (1869) aveva fatto sì che l’Africa Orientale fosse diventata appetibile, e là si erano indirizzate le aspirazioni coloniali della giovane nazione. Acquisite per vie commerciali le baie di Assab e Massaua, il forte impatto militare con i nativi avvenuto il 26 gennaio 1887 a Dogali, con i 500 uomini di De Cristoforis annientati dalle truppe di ras Alula, aveva fatto capire quanto sangue avrebbero potuto bere quelle terre aride. Né la via diplomatica si era dimostrata più agevole. Il trattato di Uccialli stipulato nel 1889 con il negus Menelik II, imperatore di Etiopia, avrebbe dovuto mettere quel paese sotto il protettorato italiano in cambio, fra l’altro, di un prestito di quattro milioni di lire, con il quale però Menelik s’era affrettato a comprare migliaia di ottimi fucili Remington e Martini-Henry, milioni di cartucce e trenta cannoni, il che la diceva lunga sulle sue intenzioni di disattendere le clausole di un trattato peraltro reso ambiguo dalle controverse traduzioni. Dopo una serie di piccoli scontri, il 24 novembre 1895, ad Amba Alagi, 40.000 abissini avevano travolto i 2690 coloniali italiani in gran parte ascari, cioè truppe di colore, comandati dal maggiore Toselli, che era caduto con 1500 uomini.
Nel gennaio 1896 la cosa aveva rischiato di ripetersi a Macallè, dove 90.000 abissini avevano assediato il forte comandato dal maggiore Galliano che, dopo una ferma resistenza e a seguito di intense trattative politiche avvenute altrove, aveva ottenuto la resa con onore nonostante l’opposizione di Taitù, “imperatrice dai lunghi piedi”, moglie di Menelik e femme fatale con alle spalle diversi matrimoni, oltre che un numero significativo di amanti fra cui il sottosegretario agli Esteri del governo italiano Pietro Antonelli. Dietro questa virago scalza e con il viso di mocciosa carogna c’erano gli interessi del clero cristiano-copto, inflessibilmente anti-cattolico e perciò anti-italiano. Il primo ministro Francesco Crispi, sanguigno ex garibaldino, deluso dai rovesci e irritato dalla mancanza di iniziativa da parte del generale Baratieri, governatore dei territori eritrei, decise di sostituirlo con il generale Baldissera. Baratieri a pochi giorni dalla destituzione decise allora di muoversi, ed entrò con 17850 uomini nella conca di Adua, malamente identificata topograficamente sulle carte militari, con le guide che facevano il doppio gioco, come del resto avevano fino allora fatto molte delle madame, giovani e belle abissine “sposate” agli ufficiali italiani. Menelik, che perciò conosceva i movimenti degli avversari, dopo la messa mattutina si mise alla testa dei propri 120.000 uomini e attaccò. Gli italiani, che non avevano portato con sé i telegrafi ottici e dovevano comunicare fra loro solo con le staffette, erano armati con i superati fucili Vetterli, destinati alle truppe coloniali perché se ne esaurissero le scorte, mentre in patria già era in dotazione il moderno ’91, con il quale per intendersi si sarebbero combattute la I e la II Guerra Mondiale. Anche i cannoni di Menelik erano superiori per calibro e gittata: il negus, con i quattro milioni ricevuti dall’Italia, stava per mettere in pratica il proposito di “far cuocere gli italiani nel loro grasso con le loro stesse munizioni”. Inferiori per numero e per armamento, senza cavalleria e senza conoscenza del territorio, quel 1 marzo 1896 gli italiani si batterono con valore, gli ufficiali sempre in piedi in prima fila. Andò come doveva andare. La morte degli ufficiali fece sbandare qualche linea degli ascari, e diversi combattenti si suicidarono per non cadere vivi nelle mani del nemico, che usava castrare chi venisse catturato con le armi in pugno, ma lo schieramento tenne fino all’epilogo. Galliano, l’eroe di Makallè, vista prossima la fine disse ai propri ufficiali superstiti: «Signori, si dispongano con la loro gente e vedano di finire bene». La sua testa venne portata come trofeo per tutto il campo abissino. Rimasero sul terreno 268 ufficiali, 4100 soldati e 2700 ascari, ben più che nelle guerre risorgimentali messe insieme. Dopo la battaglia Taitù mise all’opera i propri macellai. Dalle file dei 1900 prigionieri furono tolti i 408 ascari, cui vennero amputati la mano destra e il piede sinistro, e i moncherini vennero immersi nel grasso bollente. In capo a qualche giorno almeno metà dei poveretti era morta, mentre poco si sa degli almeno trenta italiani castrati all’atto della cattura. L’Italia non si dimostrò all’altezza. Alla notizia della disfatta vi furono manifestazioni al grido di “Viva Menelik” e “Via dall’Africa”, e ai prigionieri rimpatriati dopo il pagamento di diversi milioni di lire venne riservata un’accoglienza gelida, dovuta anche alle miserabili parole di Baratieri, che dopo il disastro aveva affermato che la sconfitta fosse da addebitarsi al fatto che i soldati avessero gettato le armi invece di combattere. Solo più tardi le foto del campo di battaglia, con migliaia di scheletri allineati in formazione di tiro o chiusi in quadrato, hanno reso giustizia a chi, colpevole delle colpe politiche e militari altrui, altro non aveva potuto fare che combattere fino alla morte, fosse bella o meschina la causa.