Eravamo abituati a incontrarli, facevano parte del nostro “paesaggio umano”. Raccontavano con tutta l’enfasi possibile cose di quella guerra che avevano combattuto, certo mettendoci del loro. Invecchiavano davanti ai nostri occhi, ogni poco ne veniva a mancare qualcuno, la vecchiaia non contempla il lieto fine. Erano i nostri nonni, i loro fratelli, i loro amici e altri ancora.
Non ce ne sono più. Gli ultimi a venire spesi come moneta matta per comprare qualche pagina equivoca del macabro equivoco che è la Storia erano nati nel 1899, li chiamavano appunto “i ragazzi del ‘99”, e molti di loro non sono andati oltre quell’essere ragazzi, così come venti milioni e passa di persone, che all’inizio di quell’inizio, esattamente cento anni fa, si trovavano in ogni angolo del pianeta senza sapere che non sarebbero andate oltre nel vivere.
Fra chi ha scritto con la propria esistenza quel pezzo di Storia c’erano intellettuali, professionisti, artisti; ma la maggior parte era malamente alfabetizzata o analfabeta. Alla vigilia del tutto che stava irrompendo sul mondo gli alleati dell’Italia si chiamavano Austria e Germania, cosa provvisoria, l’Italia intendeva le alleanze come sperimentazione temporanea, di lì a un anno sarebbe entrata in guerra sul fronte opposto.
Intanto il mondo prendeva fuoco, per scintilla il colpo di pistola con cui il 28 giugno 1914, a Sarajevo, veniva ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austriaco. Una vampata dopo l’altra, con l’Austria che dichiarava guerra alla Serbia e la Germania che la dichiarava alla Russia e invadeva il Belgio. Allora l’Inghilterra a dichiarare guerra alla Germania, e avanti così, fino a quel 1915 che avrebbe visto scendere in campo l’Italia fresca di conquista della Libia, “Tripoli bel suol d’amore” e sciocchezze similari.
Perciò ecco la Patria, con tutti i suoi possibili eccetera, a togliere braccia ai campi e alle fabbriche, e cuori alle famiglie, oggi sei un uomo magari sfruttato e sottopagato, ma insomma uomo, e domani diventi un numero in grigioverde da scaraventare contro le mitragliatrici e i reticolati dei nemici, con il di più dell’imbecillità di fondo di certe usanze “romantiche”, come gli ufficiali in piedi sotto il grandinare dei proiettili e gli alti comandi a metterci il loro tempo prima di capire che quello si chiamava tiro a segno, e cambiare gli ordini.
Così loro, da un giorno all’altro, per mesi e anni, a scamparla chi la scampava, pigiati dentro trincee fangose piene di feci e puzzo di morto, addestrando piccoli cani randagi a dare la caccia ai ratti che la facevano da padroni, e all’improvviso, a comando, spiando il sibilo dei proiettili di artiglieria, innestare la baionetta sulla canna del ’91 e balzare fuori, lasciandosi dietro le spalle quello squallore e forse anche l’esistere.
Il fante Ungaretti a straziarsi di versi struggenti d’amore per la vita quasi plagiando Omero, il suo essere degli uomini come le foglie preso dall’Iliade, VI canto, duello fra Glauco e Diomede, ma non importa, il fine era nobile e i più hanno finto di non accorgersene. Intanto le famiglie, già lontane, sfumavano nel ricordo, mentre la vera famiglia diventava quella del cameratismo, il commilitone che poteva arrivare a diventare un fratello. Così l’uomo si trasforma. Zappava la terra, e al limite schiacciava sotto la marra la testa del cane che non gli serviva più, e a un tratto si trova a dover schiacciare le teste di altri uomini con il calcio del ’91, o a trapassarli con la baionetta, magari con l’ufficiale che da dietro grida cacciagliela nella pancia e non nel torace, o non la tiri più fuori.
Un uomo con un’arma fra le mani è un uomo pericoloso, e non per colpa dell’arma, ma per quello che gli succede dentro il cervello. Finisce per crederci, e vuole fare la cosa per cui è stato tolto alla vita vera, cioè uccidere il nemico. Poi arrivano i gas, mettere in fretta la maschera quando c’è, o morirci subito, o venire finiti a colpi di mazza ferrata da quel nemico che doveva essere ucciso e invece è stato più veloce, mentre i fronti si moltiplicano, chi saranno mai i giapponesi, e gli australiani e tutti quanti gli altri, in un pullulare di nazionalità omicide e insieme vittime, se ne vanno i russi nella scia della loro rivoluzione e arrivano gli americani.
I vecchi che adesso non ci sono più hanno avuto il privilegio di sopravvivere, per raccontare ritagliandosi un ruolo e indorare la pillola, a un certo punto diventati “Cavalieri di Vittorio Veneto” in un Paese dove un cavalierato non si nega a nessuno, e poi erano rimasti così in pochi che tanto valeva elargire il contentino.
Pensavano che non sarebbe successo più, tanto che la loro è diventata “La Grande Guerra”, e fa niente l’Etiopia e la Spagna, al confronto scaramucce rispetto all’aver dovuto difendere il suolo patrio, che sarà retorica, ma insomma il nemico l’avevi in casa. Invece i biechi macellai che di lì a un paio di decenni avrebbero scatenato l’orrore assoluto della II Guerra Mondiale erano già fra loro, e si preparavano a scrivere le peggiori pagine che la Storia si sia mai dovuta accollare, in un succedersi di atrocità tali da far rivivere ogni possibile barbarie del passato, e aggiungere il raccapriccio del nuovo. E basta guardarsi intorno per rendersi conto che non è ancora finita, e che ovunque si muore ancora di certa morte, nella speranza ipocrita di esserne stati esonerati da chissà quale destino, e invece chissà.