Ribadito che la dominazione straniera non rappresenta il massimo delle aspirazioni di qualsivoglia popolo, occorre essere pragmatici fino alla sgradevolezza, e riconoscere con onestà che se la dominazione spagnola di cui Manzoni ci ha offerto una significativa testimonianza con i “Promessi sposi” non fosse stata sostituita da quella austriaca, Milano sarebbe stata esclusa dai fermenti civili e culturali dell’Illuminismo, per rimanere immersa nel malgoverno corrotto e bigotto che ha caratterizzato tutti i territori soggetti alla Spagna.
Gli austriaci avevano i loro difetti, primo fra tutti quello di essere piuttosto forcaioli e, come è stato messo nelle condizioni di testimoniare Silvio Pellico, di avere lo Spielberg facile, ma la loro amministrazione pignola e votata al servizio del “buon governo” ha permesso a Milano di esprimere il proprio potenziale di civiltà che ancora la caratterizza.
La situazione, però, compatibile con una penisola da troppi secoli soggetta a ogni sorta di dominazione straniera, ha rivelato i propri limiti quando i tempi hanno fatto sì che nella “terra dei morti, popolata non da uomini, ma da polvere di uomini” citata dal poeta francese Alfonso Lamartine e costatagli un duello perso con Gabriele Pepe, si sono fatte largo le istanze indipendentiste. L’Austria si è così accorta con un certo sbigottimento di essere sgradita in quella che considerava la propria terza capitale dopo Vienna e Praga.
Le idee anti-austriache avevano come sfondo i teatri milanesi, che nobiltà “illuminata” e borghesia progressista frequentavano per dibattere e azzuffarsi, indifferenti, secondo la moda dei tempi, a quanto avveniva sopra il palcoscenico, fosse quello dei centrali Scala e Canobbiana, o l’altro, periferico, del Carcano.
La prima avvisaglia di insofferenza si ebbe alla Scala (che in realtà si chiama Teatro alla Scala), quando la ballerina austriaca Fanny Elssler, famosissima e, pare, bellissima, nel febbraio del 1848 incassò una all’apparenza ingiustificata, ma durissima contestazione, ripetuta nelle serate seguenti al punto che la poveretta ruppe il contratto e tornò con il morale malconcio a Vienna. Il pretesto era stato banale e insieme significativo: le allieve della scuola di ballo avevano deciso di entrare in scena portando la medaglietta di Pio IX, allora improvvidamente considerato alfiere dell’unità d’Italia, proprio lui che avrebbe fatto di tutto per impedirla, e la Essler, convinta e fedelissima suddita, si era opposta al punto da minacciare il proprio ritiro dallo spettacolo. La cosa, arrivata al pubblico, aveva provocato la gazzarra.
Di lì a pochi giorni accadde il resto, e fra il 18 e il 22 marzo sulle strade di Milano trovarono la morte un migliaio fra patrioti e militari austriaci, per il prologo di quella che sarebbe stata la I Guerra di Indipendenza. Ma si trattò di una guerra che il Piemonte perse, e l’euforia dei milanesi durò il poco che doveva durare. Gli austriaci tornarono con il dente avvelenato, la repressione che ne seguì fu dura, e Svizzera e Piemonte si riempirono di fuorusciti.
Da allora la Scala, con la platea al solito affollata dalle giacche bianche degli ufficiali occupanti, venne provocatoriamente disertata in favore del Carcano, ed è su quel palcoscenico a pochi passi dalle nebbie degli orti fuori porta che debuttò una canzone destinata a entrare nel cuore della cultura popolare della città, cioè “La bella Gigogin”.
La sera del 31 dicembre 1858 la banda civica diretta dal maestro Gustavo Rossari, accompagnata dal coro, la eseguì in prima assoluta, e dovette replicarla la bellezza di otto volte. Poi, alle quattro del mattino, uscendo per il programmato omaggio al viceré austriaco, altro non fece che suonarla per l’intero percorso, con quel “daghela avanti un passo” che elettrizzò i milanesi scesi in strada per fare ala all’evento. Il viceré se la trovò così cantata sotto casa, e pare non si sia reso conto di cosa nascondesse quel testo all’apparenza sconclusionato e innocente.
La canzonetta in effetti non pareva avesse pretese, e mescolava iniziali e vaghi echi militareschi, buoni per tutte le stagioni guerresche, a richiami popolari lombardi e piemontesi, condendoli con boccaccerie da fienile, protagonista una ragazza vispa e smaliziata che bruciava di corsa le vie dell’amore, e, va da sé, il contesto pruriginoso non poteva passare inosservato; ma, soprattutto, c’era di mezzo una polenta che la bella Gigogin (forse Teresa) non voleva mangiare, al punto da fingersi malata, e la polenta aveva lo stesso colore della bandiera austriaca.
Il suo compositore, Paolo Giorza, divenne forse proprio malgrado la celebrità musicale del momento, che non era un momento qualsiasi, visto che pochi giorni dopo, la sera del 10 gennaio 1859, inaugurando la nuova sessione del Parlamento Piemontese, Vittorio Emanuele II concluse il proprio discorso pronunciando la famosa frase scrittagli da Napoleone III su indicazione di Cavour: “Non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi.”
In capo a poco franco-piemontesi e austriaci si sarebbero scontrati con durezza nella II Guerra di Indipendenza, fino alla mattanza di Solferino da cui sarebbe nata la Croce Rossa, e, vacci a capire, al suono delle rispettive bande che, da una parte e dall’altra, si suonavano addosso “La bella Gigogin”; il che dimostra che gli austriaci sapevano essere buoni amministratori, ma non è che fossero tanto svegli.