22. ALCIBIADE, BELLO, DANDY E TRADITORE SERIALE

Quando Socrate (469-399 a.C.), forse a Potidea nel 432 a. C. o forse a Delio nel 424 a. C. salvò la vita ad Alcibiade sottraendolo, ferito, ai nemici che stavano per finirlo, non era mosso solo da cameratismo, ma anche da quell’affetto così intimo che contribuiva a rendere ancora più acida la già acida di suo Santippe, moglie del filosofo, ed esiste il dubbio che la frequentazione con lo spregiudicato giovanotto abbia contribuito a decretare il brindisi a base di cicuta con cui Atene pose fine alla vita di uno dei suoi più illustri figli.
Alcibiade (450-404 a. C.) proveniva da una famiglia vagamente aristocratica e agreste, ma, morto il padre in battaglia, venne allevato da Pericle, il potente autokrator della città, uno dei rari personaggi che rendono meno indecente la Storia.  Il giovane divenne così assiduo frequentatore del salotto di Aspasia, femminista ante-litteram dal passato non limpidissimo, ma dalla grande finezza intellettuale, di fatto first lady di Atene in quanto compagna di Pericle.
Il furfante era bello, amante del lusso, ambizioso e privo di scrupoli.
Vestiva con una originalità che diventava subito moda, e aveva un comportamento sfrontato.  Per scommessa schiaffeggiò pubblicamente uno degli uomini più ricchi di Atene, Ippònaco, per poi l’indomani piombargli in casa, denudarsi ai suoi piedi e chiedere perdono.  Da quella casa uscì sposato con l’ambitissima Ipparete, cioè con i mezzi per poter coltivare senza risparmio il proprio desiderio di sfrenata agiatezza.

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Mise insieme una scuderia di cavalli da corsa con cui prese a gareggiare, e una flottiglia privata, sulle cui navi raccolse nugoli di ragazzacce scondottate e di giovanotti compiacenti.  La povera Ipparete chiese il divorzio, e lui si presentò in tribunale per caricarsela in spalla, riportarla a casa e continuare a tradirla.
Quanto alla carriera politica, sgomitò fra le file del partito democratico fino a ottenere la carica di stratego, ma, dopo la battaglia di Mantinea che vide Atene sconfitta da Sparta, passò ai conservatori, divenendo il campione della loro intransigenza.
Come capo militare si mostrò all’altezza dei costumi dell’epoca, conquistando la ribelle città di Melo, facendone uccidere tutti gli uomini e vendendo come schiavi donne e bambini.  Caldeggiò una spedizione in Sicilia contro Siracusa, della quale avrebbe avuto il comando se non fosse incappato in un infortunio sacrilego.
Avvenne che una notte la statua del dio Ermete venisse mutilata, e l’inchiesta prese la direzione proprio di Alcibiade, che forse nulla ne sapeva, ma resta indicativo il fatto che ad Atene, conoscendolo, si pensasse che invece potesse saperne tutto.  In attesa del processo la campagna contro Siracusa venne affidata a Nicia, suo rivale politico peggio che bigotto, che delegava qualsiasi decisione al volere degli dei.  Va da sé che, date le premesse, ai siracusani non riuscì difficile annientare il corpo di spedizione ateniese.  Vennero risparmiati solo i prigionieri in grado di recitare brani di Euripide, come dire che a quei tempi e da quelle parti con la cultura, così come ai nostri giorni in Italia, forse non si mangiava, con la differenza però che ci si poteva salvare la vita.
Dopo la disfatta Alcibiade, temendo di venire processato anche per avere voluto quella guerra, passò agli spartani, adottandone, lui così dedito all’eleganza e allo sfarzo, i rustici costumi di vita.  Convinse Sparta a occupare le miniere da cui Atene traeva il proprio argento e, per movimentarsi la vita, mise incinta la moglie di Agide, il re, che scoperta la cosa gli lanciò alle calcagna un manipolo di sicari che avrebbero dovuto restaurargli l’onore.
Alcibiade passò allora ai persiani, cercando di mobilitarli contro l’ingrata Sparta, così irriconoscente verso il suo contributo alla crescita demografica da volerlo morto.  Nel frattempo ad Atene le opposte fazioni erano sull’orlo della guerra civile, il che fece ritenere ad Alcibiade che i tempi per il proprio rientro in patria fossero maturi (410 a. C.).  Riuscì a ottenere il comando della flotta e per tre anni inflisse una sconfitta dietro l’altra agli spartani; ma Alcibiade era Alcibiade, e la superficialità lo portò a lasciare il grosso delle navi agli ordini di un subalterno, per andare con pochi legni a saccheggiare le coste della Caria.  Agli spartani non parve vero, provocarono gli ateniesi e li batterono alla loro sbrigativa maniera.
Alcibiade, ritenuto responsabile del disastro, fuggì in Bitinia, per rimettersi al servizio degli spartani, ma, accortosi che una nuova flotta ateniese stava disponendosi in modo errato per la battaglia, ne avvisò i comandanti che, diffidando di lui, non gli prestarono orecchio e vennero sconfitti.
Da Sparta, vittima della nuova piroetta dell’ateniese, venne l’ordine di ucciderlo, e questa volta non per ragioni di corna.  Alcibiade si rifugiò presso i persiani, che lo accolsero una seconda volta, finché non finì misteriosamente assassinato.
Ora, la Storia è stata fatta da personaggi discutibili, quando non equivoci o addirittura criminali, altrimenti perderebbe la “S” maiuscola e si ridurrebbe a cronaca; ma individuare un altro Alcibiade fra le innumerevoli pagine dei suoi libri è pressoché impossibile.  Solo passando ai testi sacri un competitore può essere trovato.  Si chiamava Giuda, anche se, poveraccio, pare abbia tradito una sola volta, per giunta per volere di Dio: al confronto di Alcibiade meno che un dilettante.

 

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