31. AMMAZZARE DI NOTTE IN NOME DI DIO

Lasciando da parte le anime belle, sciroppate nel giulebbe del buonismo a tutti i costi le quali, oltre che l’altra guancia, a puro livello ipotetico sarebbero disposte a porgere anche tutto quanto il resto, è nobile e sacrosanto affermare che non si dovrebbe mai uccidere nel nome di Dio.  La Storia, però, di certe nobiltà non sa proprio che fare.  È sporca.  L’hanno scritta con il sangue, e la religione ha dimostrato di essere uno dei migliori calamai.

Prescindendo dalla inutile follia ideal-economico-criminale che sono state le Crociate, da quando nel 1517 Martin Lutero innescò lo scisma contro la peggio che corrotta Chiesa di Roma l’Europa divenne campo di battaglia delle lotte fra i cattolici, fedeli ai fasti equivoci e senza freno di un papato che dava l’impressione di non avere fra le proprie letture preferite “I Vangeli”, e il rigore dei protestanti luterani, calvinisti e anglicani.
Mentre per altre nazioni la scelta di campo fu pressoché immediata, la Francia si trovò spaccata e dilaniata fra le opposte fazioni, in bilico fra Riforma protestante e Controriforma cattolica.  Nel 1572, sotto il regno del giovane Carlo IX affiancato dalla regina madre Caterina de’ Medici, vedova di Enrico II morto nel corso di un torneo cavalleresco, la crisi si fece ancora più palpabile.  Può anche essere che sulle prime Caterina, che esercitava una ferrea autorità sui propri figli, intendesse pacificare le fazioni dando in sposa la figlia Margherita di Valois, cattolica (la “regina Margot” sulla quale Alessandro Dumas padre scrisse un pessimo romanzo, di quelli che si basano su un personaggio storico reinventando la Storia e che, purtroppo, lasciano anche traccia, e non delle migliori, nella cultura spicciola), al protestante Enrico di Navarra (che di lì a qualche anno, ormai convertito senza troppa convinzione al cattolicesimo, avrebbe dichiarato, in procinto di salire al trono col nome di Enrico IV, che Parigi valeva bene una messa), ma fu proprio l’occasione di queste nozze, celebrate il 18 agosto, a dare la ghiotta occasione di imprimere una svolta al contenzioso e chiudere la partita, facendo confluire nella capitale i capi degli ugonotti, come venivano chiamati i protestanti calvinisti francesi.

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Quali che fossero le sue vere intenzioni, la regina temeva che il loro più significativo rappresentante, l’ammiraglio Gaspard de Coligny, stesse avendo troppa influenza sul re, e che a causa di ciò potesse indurlo ad appoggiare i protestanti delle Fiandre, che cercavano di liberarsi dal dominio della Spagna, che all’epoca vedeva sul trono uno dei più retrivi e bigotti esponenti del cattolicesimo militante mai apparsi negli annali della Storia, e cioè Filippo II.  Pare che siano stati proprio questi timori, debitamente manifestati e ampiamente condivisi dai papisti di corte, a indurre all’azione il duca di Guisa, capo della fazione cattolica, per quell’attentato di cui fu vittima la mattina del 22 agosto l’ammiraglio Coligny.
Uscitone con un braccio spappolato da un colpo di archibugio e con la prospettiva dell’amputazione, quello stesso pomeriggio l’ammiraglio ricevette la visita al proprio capezzale del re e della regina, che intendevano così placare l’ira montante degli ugonotti.  Ma, se è vero che la notte porta consiglio, quello che arrivò a Carlo e Caterina la notte fra il 23 e il 24 agosto, passata alla Storia come “notte di San Bartolomeo”, non fu fra i più accomodanti, visto che il re impartì l’ordine di uccidere a scopo preventivo tutti i capi ugonotti presenti nella capitale.
Mentre le soldatesche cattoliche setacciavano la città stanando e trucidando gli avversari, un drappello al comando del duca di Guisa irruppe in casa di Coligny, che venne trafitto, gettato ancora vivo dalla finestra, decapitato, castrato, scaraventato nella Senna, ripescato e appeso alla forca di Montfaucon, mentre la sua testa avrebbe preso la via di Roma, grazioso attestato di devozione nei confronti del papa e della fede.  Nel mezzo della carneficina Enrico di Navarra, novello sposo di Margherita che stava portandogli in dote un massacro, fu costretto con la forza dai fratelli della moglie a convertirsi al cattolicesimo, anche se qualche riserva mentale dovette rimanergli almeno finché diventò re di Francia, benedetto da quella messa di cui già si è detto.  Ma la cosa andò oltre.  Nel giro di poche ore gli ugonotti uccisi furono duemila, compresi donne e bambini, al che il re, sgomento per quell’eccesso di zelo, diede l’ordine di mettere fine alla strage.
Va da sé che la sua voce rimase inascoltata: non era il momento dei ripensamenti, e, una volta messo in moto, il meccanismo diventava difficile da fermare, tanto più che alla lotta religiosa si soprappose, come sempre in tempo di marasma dalla preistoria ai giorni nostri, ogni sorta di regolamento di conti.  Le vittime diventarono così migliaia in tutto il paese, e la Francia si trovò consegnata senza più incertezze al cattolicesimo.  Papa Gregorio XIII diede fondo all’intero devoto repertorio della propria carità cristiana esprimendo il giubilo per la sconfitta, e relativa cancellazione fisica degli ugonotti facendo cantare un Te Deum, mentre il calamaio della Storia riceveva una cospicua razione del proprio inchiostro preferito.
Quanto a Dio, in nome del quale ciò era avvenuto, può darsi che fosse distratto, o che, a furia di sentirsi invocare contemporaneamente dall’uno e dall’altro, abbia voltato le spalle disgustato.

 

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