di Luca Cecchelli
In occasione del Giorno della Memoria, torna in scena a grande richiesta al Teatro Oscar l’emozionante monologo di Marina Corradi con Angela Demattè. L’intervista all’attrice.
Perché tra le tante testimonianze sull’Olocausto, avete scelto di portare in scena da almeno 12 anni la vicenda di Etty Hillesum?
«Era il 2007, avevo da poco vinto il premio Golden Graal, quando un’amica mi propose uno spettacolo su Etty Hillesum, che all’epoca non conoscevo ancora. Cominciai a leggere il suo diario nell’allora versione ridotta dell’Adelphi – solo ultimamente è uscita quella integrale – e la prima cosa che mi colpì è che avevo la stessa età di quella ragazza quando lo scrisse, 27 anni. Mi sono subito innamorata di questa donna, ho sentito un’empatia e aspetti del suo eccezionale percorso che mi corrispondevano. Un percorso molto femminile ma anche intellettuale, filosofico e allo stesso tempo spirituale».
Quale è stato il lavoro con Marina Corradi?
«Un gran lavoro di riduzione, per niente facile dato che lei non è una drammaturga. Marina però lesse i diari di Etty e rimase a sua volta folgorata. Oltre allo spettacolo in seguito ha scritto su Avvenire numerosi articoli nei quali la cita. All’epoca mi diceva che teneva il diario di Etty sul suo comodino. E in effetti nella sua riduzione è come se ci sia anche Marina. Anche lei da una posizione laica è come se fosse arrivata a scoprire la spiritualità cristiana. Marina ha compiuto una riduzione del percorso spirituale della Hillesum suddividendo la drammaturgia in tre parti: Caos e Metamorfosi dal diario ed Epilogo dalle lettere che Etty ha scritto e inviato dal campo».
Inizialmente lo spettacolo doveva intitolarsi “La ragazza che non sapeva inginocchiarsi”: l’atto d’inginocchiarsi mi aveva colpito tantissimo, soprattutto sapendo che non era cresciuta in una famiglia cattolica.
Qual è la particolarità di questo spettacolo rispetto ad altri su Etty Hillesum?
«Che non si tratta di un vero testo teatrale ma piuttosto di “un attraversamento” compiuto nelle parole di questa donna. Un attraversamento che Marina ha reso meno altalenante e più coerente rispetto agli scritti originali, limitandolo in un preciso arco di tempo».
Dal 2007 a oggi c’è stato un cambio nell’allestimento?
«Sono cambiata io. Dunque l’attraversamento di cui parlavo risulta diverso e di conseguenza anche lo spettacolo. Mi riesce difficile oggi definirlo un monologo fatto e finito: ogni volta è sempre come se mi mettessi al servizio di “nuove parole”, non ritrovo mai la costruzione di un personaggio drammaticamente inteso. Ogni volta è come attraversare parole a cui do voce e corpo ma al di là del teatro».
Ogni volta che porto la storia di Etty nei licei mi tocca molto vedere soprattutto come le ragazze arrivino a realizzare quello che si portano dentro, anche in termini di contraddizioni. Emozioni che non sempre in letteratura hanno trovato parole per raccontare interamente “il femminile” come ha fatto Etty. Ci si può nutrire molto di questa donna, non solo sentirsi a lei vicina ma soprattutto orgogliose dell’essere femmine.
Oggi, grazie a questo spettacolo e altre testimonianze, sappiamo storicamente chi è stata Etty Hillesum. Ma a te che la interpreti chiedo: che donna è?
«Una donna che prende sul serio tutta sé stessa senza censurare nessun aspetto di sé. Una donna di grande intelligenza e umanità che nonostante la sua presunta depressione/bipolarità – come sottolinea anche Eugenio Borgna – riesce a trarre frutto da tanta sensibilità e sensualità nei confronti del mondo. Il monologo inizia dicendo: “Una volta, se mi piaceva un fiore, avrei voluto premermelo sul cuore, o addirittura mangiarlo”.
Credo che non si sia mai fermata di fronte all’esigenza di godere della realtà in tutte le sue forme. Anzi in qualche modo è come se volesse andare in fondo a certi suoi peccati – che probabilmente avrebbe chiamato così se fosse stata cristiana – e senza moralismi. È così che di fatto scopre una posizione cristiana, semplicemente assecondando questa sua esagerata passionalità. Oppure quando incontra un uomo che le fa scoprire Rilke e San Paolo e diventa in modo molto ambiguo il suo amante».
Non è una donna di cui si può fare un santino ma dalla quale poter imparare a considerarsi in quanto donna, in tutte le fragilità e le contraddizioni d’umore. Tutti quegli aspetti di cui noi donne in maniera razionale riteniamo di doverci vergognare e che invece a lei svelano un immenso e misterioso orizzonte spirituale, umano e culturale.
Qual è la forza più evidente in questa donna e gli aspetti più interessanti di questo personaggio?
«Proprio questo suo sentirsi contraddittoria ma senza censure. Lo si vede attraverso la trasformazione che compie nel campo, nel modo in cui riesce a donarsi e prodigarsi totalmente in modo spudorato e a volte quasi presuntuoso.
Questo sentirsi salvatrice dell’umanità compenetrandosi nella realtà in modo quasi virginale. E scoprendo il lato dell’accudimento femminile – considerata anche la mancata maternità con l’aborto – che quasi aveva un po’ trascurato in favore della sfera intellettuale, anche nei confronti dei genitori con i quali non aveva inizialmente un buon rapporto.
Un passaggio a volte molto difficile da comprendere perché simile a quello dei mistici, qualcosa di inafferrabile per chi non lo vive. E proprio come i mistici, si può solo intuire che Etty entri in un’altra dimensione, senza censurare però niente di quello che era prima. L’aspetto più interessante è che nonostante in principio non possieda nulla che le dia un regolamento morale, tipico di chi abbia un retaggio cattolico, si avvicina a qualcosa che noi abbiamo imparato fin da piccoli ma di cui non cogliamo la preziosità. Mi ha colpito ad esempio il suo incontro con un Dio che non è definibile».
Il punto è tentare di afferrare un personaggio senza riuscirci. Forse in realtà perché non si tratta propriamente di un personaggio ma di una persona.
In che termini?
«Sicuramente si può dire che diventi cristiana nel suo avvicinarsi a Cristo ma non si tratta del nostro Dio, anche se qualche cristiano ha la tentazione di parlare di conversione.
È soltanto un tentativo di dare delle definizioni ma non ci sono elementi per paragonarla, ad esempio, al caso di Edith Stein».
Lo spettacolo è legato alla ricorrenza del Giorno della Memoria. Cosa c’è in questo spettacolo da ricordare, ancora oggi?
«La posizione veramente impressionante di una donna. Posizione che però non bisogna banalizzare con retorica. Basti pensare a questa sua confessione ad un amico all’interno del campo di concentramento in riferimento ai secondini: “L’unica cosa che possiamo fare è distruggere in noi stessi ciò che vorremmo distruggere negli altri”. Ritiene che ogni atomo di odio che si aggiunge a questo mondo lo rende ancora peggiore ma lucidamente argomenta: “Anche il nostro compagno ebreo potrebbe essere un bravissimo direttore del campo”. È come se andasse al di là dei buoni e dei cattivi, riconoscendo un motore misterioso del male e che si può annidare anche dentro i nostri cuori.
Una posizione incredibile, soprattutto se pensiamo che scrive da dentro il campo in un modo assolutamente sincero e non solo a momenti. Considera sempre tutto nella sua interezza senza confini e limiti. Per questo, parlando delle sue profondità e delle sue contraddizioni, diventa universale e capace di essere compresa da tutti noi».
L’unica cosa che possiamo fare è distruggere in noi stessi ciò che vorremmo distruggere negli altri.
ETTY HILLESUM
28 – 29 GENNAIO
di Marina Corradi
con Angela Demattè
regia Andrea Chiodi
musiche Ferdinando Baroffio
movimenti scenici Marta Ciappina
disegno luci Marco Grisa
©L.C.
Milano, 28 gennaio 2020
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