di Luca Cecchelli
Domani e domenica Alberto Patrucco porta in scena al Delfino “Vedo buio”: uno spettacolo tutto da ridere, dedicato a questi “tempi bastardi” e non solo.
Il tuo spettacolo è una panoramica al vetriolo sui tempi che stiamo vivendo. Intanto come definirli? Dato l’interlocutore sarebbe facile dire “tempi bastardi”…
«No, troppo ottimistico…direi proprio un periodo di sconforto totale! Devo rivedere la mia personalissima tesi del ‘pessimismo comico’ perché si è molto affievolito…bisogna aggiungerne altro! Tempi bastardissimi! Incrociando le dita domani finalmente riuscirò a portare in scena al Delfino la mia data riprogrammata dal 2020, stavolta si farà costi quello che costi, varianti escluse!»
“Vedo buio” è anche il titolo di un tuo libro sul “pessimismo comico”, di cui accennavi. Di cosa si parla o meglio di cosa si riderà?
«Va fatta intanto una premessa, piuttosto ironica: molti colleghi cambiano ogni volta il titolo di uno spettacolo per poi proporre sempre lo stesso repertorio, io invece uso lo stesso titolo, ma cambio sempre contenuti. Quindi il mio “Vedo buio” delle origini non ha niente a che ‘vedere’ con quest’ultima versione, aggiornata. Mi rendo conto che come strategia di marketing non è il massimo, però continua a piacermi questo titolo che chiude e apre allo stesso tempo molte tematiche di uno spettacolo sempre in divenire.
Pur conservando il mio tratto – il disincanto, lo sberleffo, la risata non scontata – più di tutto quello che è cambiato, dalle origini, è il passaggio da una satira spicciola ad personam a un quadro satirico più generale, focalizzato su tempi e situazioni. E soprattutto evitando temi già troppo frequentati nell’ambito comico – non parlo di famiglia, donne, sesso o spot pubblicitari. Ammiccherò all’attualità Covid passando per l’economia, la globalizzazione o sul fatto di essere autoctoni, sfottendomi in prima persona arrivando io dalla Brianza».
“Ah, la fierezza dell’appartenenza…’mi sun di Abbiategrasso!’
Come andar fieri di chiamarsi Mario…”
Al di là della distanza di alcune tematiche, questi saranno i riferimenti all’interno di un percorso che parte da come è cambiato il cabaret dagli anni in cui iniziavo a frequentare Milano, ere geologiche fa».
Tu come Flavio Oreglio sei restìo alla definizione di ‘comico’.
«Non c’è nessuna polemica nei confronti dei comici, ma non è quellala categoria alla quale mi sento di appartenere. Sono un cabarettista e in principio i cabarettisti erano qualcosa di alternativo ai comici sdoganati dalla televisione, come Walter Chiari, Macario, Carlo Dapporto, professionisti rispettabilissimi. I cabarettisti però, vuoi per un linguaggio più trasgressivo, vuoi per le argomentazioni, vuoi per l’uso trasgressivo del dialetto erano altro. Il cabaret milanese in particolare attingeva molto dallo stile francese dove si cantava moltissimo. Nello spettacolo parlo dello stereotipo del cabarettista milanese con la chitarra, quando la chitarra addirittura prevaleva sulla personalità del comico. Ecco, mi sento affine e più in sintonia a quel mondo che non c’è più, rispetto alla comicità fatta di standard.
Mi interessa che si rida sui contenuti che propongo: se la satira ha un obbiettivo, è quello di toccare argomenti scomodi ma col grimaldello della risata, altrimenti prendi in ostaggio le persone. A me non va di prendere in ostaggio nessuno, né di far cambiare idea, non ho e non ho mai avuto nessun messaggio da lanciare, non mi interessa educare. Sono un po’ restìo nei confronti di “quelli che hanno capito come gira il mondo” e vogliono dispensare buoni consigli. Mi interessa solo solleticare senza prendere di mira un soggetto, deve vincere lo spiazzo ironico, umoristico, satirico, comico. Insomma, far ridere e basta».
“Molta gente è convinta di essere in regola con il canone perché già paga la tassa dei rifiuti”
Il pubblico televisivo con la pandemia si è ovviamente moltiplicato: lo stand-by è ancora il tuo programma preferito?
«Assolutamente! Non riesco a vedere altro. Al massimo quando rimuovo lo standby guardo qualche film, ma non riesco a seguire altro, non parliamo dei talk show ma neanche i varietà. Forse anche perchè vengo da una scuola dove ci insegnavano a vedere meno cabarettisti possibili. E non per snobbismo, ma secondo una logica: se qualcuno parla di un argomento di cui voglio scrivere anche io, non ne scrivo più. Sono cresciuto l’etica che imponeva di non copiare lontanamente battute altrui, argomenti compresi. Oppure farlo ma sempre con uno stile diverso».
Georges Brassens nel tuo passato e nel tuo presente: tornerà anche nel tuo futuro?
«E chi lo molla? É una ricchezza inestimabile. Nel mio monologo al Delfino farò qualche incursione con la chitarra in stile Brassens. C’è un filo che mi lega alla sua straordinaria storia, dal modo di fare canzoni al suo essere anarchico e agnostico, all’approccio all’amore e alle donne, alla morte. Già avevo fatto delle traduzioni, recentemente è uscito anche un libro, AbBrassens, una ‘non-biografia scritta in collaborazione con Laurent Valois per l’editore Paginauno in occasione del centenario della nascita – e siamo pure vicini ai 40 anni dalla scomparsa. L’ultima presentazione l’ho fatta al Festival Tenco. Il libro sta andando abbastanza bene anche se le presentazioni si sono interrotte. L’idea è che il libro sia poi lo spunto per un recital alla Brassens, spettacolo sfizioso che sto preparando per la prossima stagione in cui io tornerò a suonare la chitarra in un set musicale minimale. Mi piace molto la suggestione teatrale del parlare di tematiche di oggi appoggiato a canzoni che hanno più di mezzo secolo, in taluni casi anche 70 come La Mauvaise Réputation (1952). E sembrano scritte domani, non ieri.
Mi piace moltissimo la magia per cui una sua canzone possa sembrare più giovane del monologo o viceversa, in un contesto che comunque conferma una distanza generazionale. Non sarà un vero omaggio a Brassens, presento mie traduzioni all’interno di uno spettacolo che vedrà Brassens come colonna sonora».
“Si pensava che dalla Prima alla Seconda Repubblica le cose sarebbero migliorate, invece stiamo rinculando: siamo passati dalla Prima alla Seconda ma deve essere entrata la retro”
Restando all’attualità, cosa sta diventando l’elezione del Presidente della Repubblica?
«C’è concorrenza sleale, ho sentito anche il nome di Amadeus. L’dea che si ha è che da un’Italia un po’ ‘mattarella’, si arrivi alla pazzia totale, qualcosa di deprimente, per non dire nei casini. Per tornare a quanto detto sopra sono le situazioni che diventano imbarazzanti anziché le persone. Non si tratta più di prendersela con Tizio, Caio e Sempronio, siamo veramente spiazzati: quando il comico è al potere la satira è in crisi. Quindi si fa fatica perché c’è molta concorrenza».
“So come investire i miei risparmi: il titolo con la percentuale migliore è l’inflazione”
Senza ironia per quello che stiamo vivendo: ci sono delle new entry nel tuo lapidario?
«Qualcosina sì…Il lapidario è nato da un presupposto: qualunque cosa si possa fare nella vita, si viene ricordati sempre per una cosa in particolare. Ad esempio se l’epitaffio di Berlusconi potrebbe essere “Intendo tornare”, Prodi passerà invece alla storia per le sue maggioranze traballanti. Il suo epitaffio? “Finalmente faccio parte di una maggioranza stabile”».
“Alberto Patrucco non risparmia nessuno e nemmeno se stesso”
Questa pandemia in particolare ti ha dato spunti interessanti?
«Qualcuno riguardo la globalizzazione dell’economia, dei gusti, delle tendenze e anche della malattia. Possibile che ci si protegga da tutto poi un virus atipico, mutante, arriva in business class nei polmoni di un manager griffato dal calzino al capello e atterra a Milano Malpensa?
E poi “Andrà tutto bene”…non si sa a chi…»
“Mi ha chiamato la banca: “Ha uno scoperto considerevole, la preghiamo di rientrare al più presto. Ma state tranquilli andrà tutto bene”
Si può ancora scherzare su tutto? Come è diventata la vita dei cabarettisti dopo lo sdoganamento massiccio del ‘politically correct’?
«Parto sempre da un’ideuzza, anche se non so come si svilupperà il pezzo e poi sto attento prima di tutto alla deriva che può prendere, sia misogina, razzista o altro. Mi pongo i miei paletti. La possibilità di essere scorretti c’è sempre e il campo si restringe, però alla fine si può raggiungere il senso di uno spettacolo.
Il mio scopo è essere un po’ meno monocorde in un mondo che abbraccia ossessivamente certi argomenti. Il punto non è non parlare di una tematica ma fare attenzione a come se ne parla. Trovare delle vie d’uscita quanto meno interessanti e soprattutto poter sentire qualcosa di diverso».
In conclusione un personale ricordo di Roberto Brivio, trovandoci oggi a metà strada tra l’anniversario della scomparsa e la data del suo compleanno.
«Brivio è stata una personalità alla quale ero molto legato. È stato primo ‘famoso’ che ho conosciuto ai miei esordi, il primo generoso ad aiutarmi – fortunatamente ho poca memoria e non ricordo le nefandezze che facevo in quel periodo, mi viene da arrossire a pensarci (sorride). Allora i Gufi erano un punto di riferimento e lo sono ancora per quello che è stato il cabaret milanese, non solo in senso territoriale, ma anche rispetto all’anima del fare cabaret. Un’anima completamente diversa da quella romana ad esempio più in linea al varietà. I Gufi sono stati un punto di riferimento, insieme a Brassens e Jannacci, una genìa di singolarità ed effervescenze.
Proprio con Brivio, Flavio Oreglio e David Riondino avevamo pensato di ricostituire i Gufi con gli occhi di oggi. Ero molto affezionato a questo progetto, ultimamente andavamo a casa di Brivio a provare, avevamo già imbastito più di un canovaccio e avevamo scelto le canzoni da proporre. L’avevo sentito l’ultima volta poco prima della sua dipartita, stavamo lavorando a questo progetto.
Probabilmente realizzeremo qualcosa in occasione del compleanno di Roberto (21 febbraio), senza nostalgie e retorica. Mi è spiaciuto molto per il progetto ma soprattutto per lui. Certe figure andrebbero rivalutate e ricordate, era veramente un grande».
Ma alla fine “C’era una svolta”?
«Mi sa che la svolta è questa qui. E adesso torniamo al punto di partenza. Venite a scoprirlo insieme a me, vi aspetto».
VEDO BUIO
28 gennaio, ore 21.00
29 gennaio, ore 16.00
di Alberto Patrucco e Antonio Voceri
Con Alberto Patrucco
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