di Luca Cecchelli
Debutta stasera al Carcano “Le sedie” di Ionesco, per la regia di Valerio Binasco. Una rappresentazione tanto assurda quanto reale della condizione umana, ieri come oggi, nelle parole di Federica Fracassi, in scena con Michele Di Mauro.

Michele Di Mauro e Federica Fracassi in una scena de “Le Sedie” di Ionesco, regia di Valerio Binasco
Spettacolo importante per te, dato che ti ha fatto meritare il premio Le Maschere del teatro Italiano. Come è nata la partecipazione a questo spettacolo?
F.F.: «È stato come un piccolo miracolo, sia qualcosa di nuovo che al tempo stesso una sorta di ritorno. Di nuovo perché già durante la pandemia Michele ed io – che ci conosciamo da una vita e da una vita volevamo lavorare insieme – ci siamo riavvicinati e affiatati inizialmente “giocando” con gli strumenti offerti dal video, come molti nostri colleghi, fino a creare un gruppo e realizzare cortometraggi. E poi un ritorno perchè Binasco, regista con il quale avevo già lavorato tanti anni fa, ha deciso di chiamare me e Michele a partecipare a questa produzione».
Feroci vicine di casa che si esprimono esclusivamente con proverbi o frasi fatte, colleghi dalla parlantina irrefrenabile e amici vittimisti: il testo di Ionesco che ha debuttato oramai 70 anni fa (al Théâtre Lancry di Parigi 22 aprile 1952) presenta situazioni reali e riconoscibili, ma anche appunto assurde – non è un caso che sia un testo contemporaneo di Aspettando Godot e un anno dopo di L’uomo in rivolta di Camus. L’attualità del testo?
F.F.: «Noi ne abbiamo dato un’interpretazione molto attuale, senza sforzarci più di tanto. Nel senso che l’assurdità di base, che allora si manifestava anche con una critica al teatro o comunque nei confronti di una esasperazione di meccanismi teatrali più formali, in questo momento la ritroviamo intrisa nelle nostre vite. Lo era nel momento della pandemia, quando stavamo provando; lo è ora con tutti questi fronti di guerra aperti che continuano a minacciarci. Lo stato del pianeta fa sì che continuamente noi umani ci diciamo quanto assurda sia la nostra vita».
“Valerio Binasco ne ha dato una chiave piuttosto dolente, malinconica e romantica da un certo punto di vista, rintracciando un nucleo nell’amore di questi due vecchi che resistono a tutto. Questo loro messaggio d’amore forse è una delle poche certezze del genere umano. Tutto il resto invece è veramente riconoscibile nella nostra attualità, non è stato difficile ritrovarlo nelle piccole cose quotidiane”
Ionesco porta in scena il clima di quegli anni di guerra fredda. Trovi riferimenti anche nell’immediato presente?
F.F.: «Purtroppo sì, c’è un continuo riferimento, se consideriamo nel frattempo anche i fatti dell’Afghanistan, tutte notizie che purtroppo presto si dimenticano. Grandi spaventi e grandi dimenticanze. La scena disegnata Nicolas Bovey si apre con le sedie e poi gli invitati invisibili, da un certo punto di vista mantenendo fede ai dettami di Ionesco, ma rappresentando un interno diroccato, quasi post atomico e dunque incredibilmente preveggente della nostra contemporaneità. Siamo su un baratro di fine del mondo e lo sentiamo. Trovo moltissimi agganci con il presente: al di là delle guerre c’è un pianeta sofferente e tante domande a cui l’uomo non riesce a rispondere. E un nesso anche col nostro lavoro, il teatro: il fatto che questi due vecchi protagonisti siano clown, due Ginger e Fred un po’ stanchi, rappresenta una sorta di logorìo del messaggio teatrale, come dicessero “ci abbiamo provato in tutti i modi”».
“Io sento profondamente l’interpretazione di questa vecchia circense, artigiana delle emozioni. Sento con grande dolore quanto tutta una serie di relazioni basate su questa artigianalità emotiva siano minacciati in questo momento”
Binasco ha trovato una lettura più intima ed emozionale, che prende in parte le distanze dall’assurdo di Ionesco. Non c’è solo l’incomunicabilità del vivere in un mondo senza senso, ma un originale gioco scenico nel quale inventa questa coppia di teneri vecchi clown, entrambi a rinnovarsi insieme nella propria solitudine esistenziale. Una favola d’amore, una visione malinconica per la condizione umana, ma a restituire un senso ancora più profondo e vero. Il teatro dell’assurdo diventa un modo per raccontare la condizione umana con tenerezza. Che coppia è quella interpretata da te e Michele Di Mauro?
F.F.:«Una coppia rara da un lato, dato che non è così semplice trovare due persone che si rinnovino a stare insieme per quasi cento anni – che diventano sempre di più nella loro memoria durante il dialogo. Dall’altra parte una coppia molto autentica, con dinamiche reali tra uomo e donna: lei che lo incalza e lo stimola, ma lo critica anche, lui che è alla ricerca di una vocazione. Tutto risulta comunque molto “delicato”, il modo in cui siamo in scena, l’attenzione che ci mettiamo senza essere mai troppo carichi di espressività o muscolari. L’occhio di Valerio ha voluto far risaltare una delicatezza che va dall’abisso della malinconia alla risata, attraverso piccoli gesti».
“Nel raccontare la farsa tragica di questi personaggi in un luogo isolato a preparare sedie di una conferenza in cui lui avrebbe raccontato il senso della vita e nei confronti di noi attori, Valerio ha posto un’attenzione minuziosa, entrando talmente nei particolari fino toccare qualcosa che riguarda tutti noi. Come sempre la poesia è grande quando parte da particolari minimi e conosciuti”
MDM: «Nella storia vengono presentati come marito e moglie, come due vecchi clown, o clown post apocalittici, la faccia più terribile, ma allo stesso tempo più poetica del genere umano. Una faccia che si ritrova perfettamente nella dimensione clownesca. Il clown ci presenta sempre e comunque riso e pianto nella stessa cifra, negli stessi connotati. E con il clown il circo e con il circo tutti quei mondi che sono stati motori di ricerca di altri autori importanti, anche del cinema. Nella nostra mente c’è più Fellini di un qualunque altro regista teatrale che abbia avuto modo di affrontare Ionesco o l’assurdo. C’è qualcosa di più profondamente ‘impegnato’ sul genere umano che non sulla condizione di esso. Si tratta dunque di una coppia in qualche modo felice di poter raccontare l’esistenza di coppia. Emblematico è il fatto che alla fine di tutto – oltre all’ipotesi del narratore che nel nostro spettacolo ha un’altra valenza e un’altra risoluzione rispetto alla proposta di Ionesco – il centro di tutto risulti per l’uno la forza dell’altro. E l’altro in questo caso è un compagno di vita, una moglie o un marito, ma potrebbe essere semplicemente l’altro, inteso come “un altro me stesso”.
“Forse anche perché il mio personaggio non ha nome – mentre lei viene chiamata Semiramide in modo molto divertente da lui – ma insieme rappresentano un’unità. Definizione intrigante perché indica uno ma anche l’insieme di uno più uno. Raccontiamo così come l’unità, quindi il riconoscimento dell’altro, specchio di sé, sia la forza di questa coppia”
Poter poi raccontare una storia d’amore lunga un secolo e mezzo è l’altro valore assoluto di questa pièce. In una intervista meravigliosa che fecero a Ionesco, dopo un’ora e mezza in cui lui rispondeva a qualsiasi cosa l’intervistatore gli chiedesse dal punto di vista scientifico, politico, artistico, gli fu posta infine questa domanda: “Per lei che cosa esiste davvero e che cosa ci può salvare?” E lui con la sua espressione a metà tra bambino e serial killer disse: l’amour. Che poi sia l’amore in generale o l’amore per qualcosa e qualcuno è sempre quel sentimento motore, in fondo quello che raccontano proprio i due protagonisti».
Un cenno ai vostri costumi che caratterizzano questi personaggi distopici: come guidano lo spettatore idealmente?
MDM: «Sono costumi molto vicini a quelli che potrebbero essere personaggi del circo o del varietà. Costumi di personaggi e non di persone. Il trucco enfatizzato cita il circo ma anche Bob Wilson. E anche il trucco teatrale, non fosse altro come omaggio a questo testo che nasce decisamente come metateatrale, testo che Ionesco ha scritto per fare un punto preciso anche su quella che era la condizione del teatro del suo tempo.
“Le sedie” è dello stesso anno di “Aspettando Godot”. In “Aspettando Godot” si aspetta e Godot non arriva. Ne “Le Sedie” si aspetta e invece alla fine arriva qualcuno che però non ha voce e non ha modo di comunicare davvero. Ma il fatto di non arrivare è in realtà il vero arrivo: il gioco è portato all’ennesima potenza, in questa rilettura di Valerio”
I costumi dei due personaggi sono da Amarcord, opera lirica, teatro di boulevard. Hanno costumi diversi ma più o meno la stoffa che li avvolge è la stessa. Quasi un po’ a ribadire il fatto che sono della stessa pasta, due facce della stessa medaglia, due metà di un’unica essenza per raccontarne una terza».
Il nodo centrale è esorcizzare la paura, la disperazione. Ci si riesce?
F.F.: «Ho sentito molti spettatori, anche anziani, trovare una sorta di leggero sollievo nel sentir dire “ho vissuto la vita fino ad ora e qualcosa ho dato, a qualcosa è servito”. C’è tanta paura e tanta tristezza, ma sicuramente il senso del teatro sta anche in questo legame d’amore col pubblico, una relazione forte, un ponte che ci sta dando tantissimo. Personalmente è tutta la vita che cerco di lavorarci: per me lo scopo del mio mestiere è proprio questo ponte di empatia da stabilire con il pubblico e se questo avviene – in questo spettacolo mi sembra che avvenga a vari livelli, con i sentimenti più contrastanti – è come vedere una luce.
Quando abbiamo debuttato un anno fa a Torino, siamo stati tra i primi a tornare in scena ed è stato veramente disarmante. Ogni sera c’erano pochissime persone spaesate in sala, che ancora non sapevano neppure se poter tornare a teatro. Con quelle presenze contingentate ogni incontro era speciale, ti rendevi veramente conto del valore esperienziale del teatro. Il fatto di essere con quelle persone a teatro quella sera, guardarle e poter parlare proprio a loro, ogni momento veniva enfatizzato. E oggi vedo che tutta la gente che sta di nuovo affollando i teatri ci viene con un’altra attitudine, c’è maggiore concentrazione ma anche rispetto nel voler godere questa esperienza fino in fondo».
L’assurdo è il tema filosofico di tutte le pièce di Ionesco, dunque anche la filosofia diventa materia per buffoni?
«Sì se pensiamo a Beckett o a Čechov, ma anche a un sistema totalmente diverso che non sia filosofico. Quando gli autori sono così grandi sanno toccare le corde dell’anima. L’anima e la metafisica sono molto collegate. Come dicevo sopra, anche per la poesia, ci sono contenuti che non si possono affrontare per schemi ma attraverso corde che devono essere toccate, anche quelle della risata. La risata ha un grandissimo potere. Non dimentichiamoci Il nome della rosa e i libri proibiti, nascosti perché ritenuti capaci di destabilizzare l’ordine costituito».
“La risata è vicina alle lacrime e si scambia continuamente con quelle. Sì, si può fare filosofia con delle risate, che poi magari non sono grasse ma buffe e ingenue, oppure in altri momenti anche assordanti.
L’importante è ridere di se stessi, con autoironia”
L’assurdo è una componente dell’umano?
MDM: «È sempre un giudizio, l’assurdo. Dopo un episodio può venire da commentare “ma questo è assurdo”, quando in realtà è già capitato, dunque non lo sarebbe più. C’è qualcosa di sordido nella parola assurdo, non fosse altro nelle lettere che lo compongono. E in questo assurdo in particolare c’è qualcosa di melanconico, così come nella melanconia dei film di Von Trier, c’è qualcosa di terrificante. In questo momento fare uno spettacolo con tutto quello che ci sta accadendo intorno proclama la piccolezza dell’individuo di fronte all’assurdità di certi eventi più grandi di noi. L’assurdità di tentare di gestire dei rapporti col potere».
“Il teatro dell’assurdo non nasce come manifesto, etichetta che è stata appioppata ad alcuni autori, drammaturgi e scrittori. Era semplicemente un teatro che provava a ricostruire il mondo in un altro modo dopo quello che era appena stato, cioè la Seconda Guerra Mondiale. Troppo frettolosamente hanno definito tutto questo materiale “teatro dell’assurdo”, ma non era assurdo impossessarsi dell’orizzontalità delle storie con un linguaggio nettamente più astratto.
Forse sarebbe più giusto definirlo un teatro astratto più che un teatro assurdo”
Come definiresti questo spettacolo?
MDM: «Uno spettacolo che parla di una storia d’amore lunga un secolo e mezzo, in cui due persone che hanno costruito l’ipotesi di una vita insieme si rendono conto che hanno fatto bene a farlo, perché attraverso l’odissea di poter vivere con una sola persona, rinunciando a tutto il resto, ci raccontano la meraviglia e la bellezza di concentrare i propri sentimenti su un fuoco unico.
Rileggendo l’opera di Ionesco, attraverso vari livelli, non metterei al primo posto l’assurdità, ma il tentativo di rielaborare il linguaggio in una maniera così insolita da essere considerata assurda. È un autore che vale la pena di essere rifrequentato, sicuramente uno dei motivi più interessanti per vedere questo spettacolo. Ionesco è stato un po’ messo da parte per vari motivi – tra quelli ufficiali anche l’essere considerato un autore di destra. E poi è sempre stato messo in scena in una maniera un po’ troppo superficiale e goliardica, comunque spesso ponendo al centro l’elemento grottesco e non la lettura vera degli strati che nasconde la sua scrittura. Ecco che allora forse il tentativo che abbiamo fatto e cerchiamo di fare su questa lettura e questa interpretazione de Le sedie è quella di andare a cercare molto più nel profondo cosa ci vuole raccontare questa coppia di personaggi, che alla fine sono un’unità. Come in fondo tutti noi, parte della stessa umanità».
LE SEDIE
Dal 15 al 19 marzo, ore 20.30
20 marzo, ore 16.00
di Eugène Ionesco
Traduzione Gian Renzo Morteo
Con Federica Fracassi e Michele Di Mauro
Regia Valerio Binasco
Assistente alla regia Giordana Faggiano
Scene e disegno luci Nicolas BoVey
Assistente alle scene Nathalie Deana
Costumi Alessio Rosati
Musiche Paolo Spaccamonti
Produzione Teatro Stabile di Torino e Teatro Nazionale
©L.C.
Milano, 15 marzo 2022
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