di Luca Cecchelli
Il teatro Menotti Filippo Perego dedica da stasera e fino al 5 maggio una personale ad Alessandro Benvenuti. Volto molto conosciuto e autore di testi per la scena senz’altro assimilabili per il linguaggio tagliente, ironico e corrosivo, ma mai ripetitivi. Un teatro e una scrittura difficile da definire in tre spettacoli scelti, nei quali si cala in personaggi estrapolati dalla vita di tutti i giorni, trasformati in archetipi del disagio e della tragicomicità contemporanea. L’intervista.
Cominciamo dal tuo rapporto con casa Menotti.
«Conosco il Menotti dal secolo scorso (sorride): ci venni la prima volta nei primi anni ’90, quando era ancora Teatro dell’Elfo, con lo spettacolo Due gocce d’acqua. Più recentemente, con la nuova gestione, abbiamo stabilito un rapporto di grande assonanza, anche affettiva oltreché lavorativa. Mi sento molto coccolato, è davvero come essere a casa. Ho trovato un’accoglienza calorosa, non ultimo la scorsa estate in Sormani, un pubblico molto attento. E lo dimostra questa stessa personale che il Menotti ha deciso di dedicarmi».
Come nasce il progetto di questa personale?
«Dal debutto del mio ultimo spettacolo, Panico ma rosa, nella rassegna estiva del Menotti lo scorso anno in Sormani. Mi ha colpito molto l’entusiasmo che quel tipo di drammaturgia ha riscontrato, alla presenza di poco più di un centinaio di persone. E ancora di più il fatto che Emilio Russo mi abbia di conseguenza invitato a proporgli altri testi per una mia retrospettiva in stagione. Mi fa piacere che questo mio lavoro sulle parole venga notato e considerato, sono lusingato del fatto che mi venga riconosciuto uno stile, frutto di una ricerca di decenni sul comico. Anche perché solitamente alla drammaturgia comica viene dato, diciamo, qualche punto in meno».
“La mia è una profonda ricerca sulla musicalità delle parole, oltreché sul senso comico, che mi impegna da sempre: non mi sono mai accontentato”
Tre spettacoli dal 2000 al 2020, tutti già passati a Milano, a tracciare un percorso. Come è avvenuta la scelta?
«Ho scelto Chi è di scena? ad aprire stasera la rassegna perché narra il mio amore per il teatro attraverso due personaggi che vengono da quel mondo – ovvero un anziano attore sparito dalle scene e un giovane studente dell’accademia che lo incontra per intervistarlo. Un anelito d’amore per il teatro mediante un gioco dalle sfumature thriller.
Non mancherà ovviamente Panico ma rosa, mia ultima scrittura, che prende in esame le ferite che la pandemia ha lasciato in ognuno di noi. Non tanto una semplice cronaca di quei giorni, anche se c’è qualche accenno a fatti accaduti, quanto il desiderio di analizzare e demonizzare i segni delle profonde ferite psichiche che quel periodo ha generato.
Infine Un comico fatto di sangue, monologo sull’amore coniugale, sulla metamorfosi dei rapporti tra i membri di una famiglia e su come la presenza di un tenero cagnolino possa sconvolgerla. Con un colpo di scena finale che lo rende molto più simile a Chi è di scena? che non a Panico ma rosa».
Qual è il minimo comun denominatore di questi testi?
«Sono tre scritture comiche caratterizzate dalla continua ricerca del linguaggio e della musicalità, a creare una sorta di mio affresco, nel tentativo di portare questi miei argomenti a quanta più gente possibile. In particolare, forse perché nato come cantautore, tengo molto all’elemento della musicalità: l’idea di scrivere delle partiture enfatizzando le parole mi ha sempre affascinato. Concentrarsi sul senso della parola, sul perché si parla e quanto serva parlare per capirsi. La mia è una ricerca quasi ossessiva sulla parola, intesa come comunicazione ma anche mistero. Dopo anni che recito frasi da me composte, improvvisamente scopro sempre possibili altri significati o sottosignificati che lì per lì non avevo colto. Questo per dire quanto sia interessante addentrarsi nel linguaggio delle cose non dette o di ciò che si riscopre col tempo, dopo che inconsciamente lo si è messo in piazza senza averne mai avuto totale coscienza».
“Il mio lavoro è quello di scolpire la parola, lavorarci fino all’ossessione. Non se ne può più del parlare a vanvera, di non sapere più cos’è la verità e la bugia. È qualcosa che stordisce e mette di malumore non avere più una boa, una geometria precisa, un lessico che sia in qualche modo chiaro”
Panico ma rosa, lo spettacolo forse più atteso, come dicevi, è ispirato ai tuoi 59 giorni di lockdown. L’hai definito Po.Ca.Co. (ovvero Poetico Catastrofico Comico): come si colloca in questa tua ricerca?
«È un flusso di coscienza o semplicemente il dolce abbandonarsi ad uno smarrimento. Situazioni e riflessioni comiche di questo monologo vengono proprio dal senso di smarrimento dal quale il protagonista, nel momento in cui sembra che stia per perdersi, si salva sempre con un’ultima bracciata, una battuta dal sapore filosofico o esistenziale. È il racconto del disgregamento neuronale di una persona, cioè quello che è successo a tutti noi, chi più chi meno. Trovarsi nella condizione di subire un fato o dover essere messi in linea da un vento incontrollabile ha creato un rapporto con la fatalità e l’incognito col quale la nostra generazione, che neanche ha fatto la guerra, mai aveva fatto i conti. Niente di così chiaro e imperscrutabile allo stesso tempo. E come racconti un disgregamento cerebrale? Come una perdita in allegria della coscienza. Una specie di naufragio dal quale ci si salva con bracciate improvvise che generano schizzi di ironia appunto. C’è solo il tentativo di raccogliere i resti di sé. Per questo Panico ma rosa è il più difficile dei tre testi da recitare, non ha uno stile preciso».
Come lo definiresti?
«Uno spettacolo molto particolare. Qualcuno lo paragona alla trilogia dei Gori. Forse perché ci sono numeri ginnici dal punto di vista del fiato e della gestione della la fatica, ma anche nella struttura stessa del linguaggio. È un impegno fisico notevole, una bella prova di forza. Ci sono autentici momenti di follia, deliri intensi come un travolgente assolo di batteria che a volte neanche si riesce a seguire. Bisogna essere attentissimi. Se perdi un attimo il ritmo non ti riprendi più: è uno di quegli spettacoli in cui raramente vedo qualche display accendersi in platea.
“C’è dentro forza, disperazione, sincerità, il fatto di sentire il tempo passare e di accettare ciò senza troppe illusioni. Tanto sappiamo tutti come va a finire la nostra vita, senza happy ending”
È uno spettacolo più difficile e singolare da ascoltare perché non c’è un centro. Perché quando la mente si disperde, scappa contemporaneamente tutto da ogni parte mentre si cerca disperatamente di raccattarlo. È come tirar fuori dalla cesta tutti i serpenti e poi rimetterli dentro uno a uno. Io, da autore, riesco metaforicamente a rimettere tutti i serpenti dentro la cesta e dare chiusure alle storie che si vanno ad aprire, anche se alla fine forse qualcuno rimane fuori. È un tema diverso dagli altri due spettacoli che hanno uno scopo preciso, una trama. Questo è un diario, in ogni pagina c’è un pensiero, uno stato d’animo. E ad ogni stato d’animo e pensiero e corrisponde un modulo recitativo e un approccio diverso, anche mentale: questo lo rende più difficile da recitare».
Perché questo titolo, Panico ma rosa?
«Perché il panico è ciò che ha riguardato tutti. E rosa perché mi sembrava un colore di speranza. O forse perché ero circondato da femmine, tre rosee creature e una moglie. E anche per una ragione più banale: Panico ma rosa è l’acronimo formato dalla prima sillaba dei nomi e dei cognomi di tre miei amici che negli anni ’80 misero su una piccola ditta di abbigliamento per giovani che si chiamava così. Un titolo che mi è sempre piaciuto, andava benissimo per il diario che ho scritto durante il lockdown. Anche se la ditta non esiste più ho chiesto e ricevuto il permesso da tutti e tre per utilizzarlo. Erano felici che la loro creatura potesse in qualche modo rivivere attraverso il mio spettacolo».
La genesi di questo spettacolo è stata lunga?
«La drammaturgia è nata ogni giorno durante il lockdown, dai miei post sui social. Era il mio modo di restare attaccato al mondo e al pubblico. Ad esempio non ho preso la strada dello streaming: da uomo di teatro non ci ho mai creduto. O meglio: lo utilizzerei per altri contenuti, non per il teatro. Lo strumento che credo potesse rappresentarmi e farmi conoscere un po’ di più come persona che come attore – dato che sono molto timido un po’ associale – ho trovato che fosse un diario. Senza parlare di fatti privati di famiglia, perché non ne sarei proprio capace. Semmai aprendomi di più ai miei ricordi, alle sensazioni del momento, a quelli che erano i pensieri giornalieri.
“Mi sono imposto di scrivere ogni giorno delle pagine di diario sui social. A queste pagine poi si è aggiunta anche mia figlia Carlotta che ha realizzato un progetto fotografico, ripreso anche da giornali e riviste. Questo è diventato il nostro modo di passare la giornata”
Alla fine mi sono ritrovato 170 pagine di materiali. La parte più complicata è stata ridurle a 33, enucleate in modo tale che avessero senso. Raccontare senza entrare nel dettaglio, o passare di moda, tutto quello che è capitato in quel periodo in maniera esilarante: l’importanza dei cani, sogni, ricordi dell’infanzia, il passato, il confronto con la religione e Dio, i temi esistenziali, filosofici, Einstein o Gianni Morandi, analizzando che cosa questa pandemia abbia smosso dentro di noi, sia amicizia, affetto o speranza. Su tutto, di base, c’è sempre un profondo desiderio di fare ironia e sarcasmo, evidenziare le sfaccettature che riguardano la professione del comico con osservazioni insaporite. Non riesco a non ridere sulle cose, è il mio salvavita».
“In questi spettacoli ridiamo irresistibilmente. E poi inevitabilmente e quasi senza accorgercene ci troviamo a pensare alle nostre fragilità e agli aspetti più nascosti di cui un po’ ci vergogniamo di quella cosa che continuiamo a chiamare vita”
Ti definisci autore comico, ma non attore comico. Come definiresti la tua scrittura?
«Non sta a me definirmi, lascio questo compito ad altri. Non te lo so dire di preciso, per me scrivere è la vita. Osservo gli eventi e se riesco a raccontarli mi sento in sintonia con il mondo. Così mi sento vivo, utile. Io sto cercando da tutta la vita di essere comico, ma non perché mi vengano battute o prenda in giro qualcuno tramite personaggi che facciano ridere: io racconto solo la mia storia. Tutto quello che scrivo è da sempre un grande affresco che riguarda me, i miei parenti, i miei amori, i miei affetti, le persone che ho incontrato. Io non saprei prendere un argomento e scrivere, che so, di lavoro interinale. Non lo saprei fare, non perché non mi interessi ma perché non lo vivo. Parlo di quello che ho vissuto. In ogni spettacolo c’è tanto che mi riguarda. Il miracolo, almeno per ora, è che la gente vedendo me o quello che ho scritto riconosca qualcosa di sé e mi ascolti. Forse se fossi andato da uno psicanalista non avrei scritto. Dato però che non ci sono mai andato ho un disperato bisogno di scrivere per capire dove sto andando mentre il mondo gira sempre più veloce. E per rimanere in qualche modo attaccato al mondo ho continuamente bisogno di capire se ogni giorno ha senso stare al mondo.
“Per me scrivere è un fatto vitale. Credo di vivere di più attraverso la scrittura che non nella vita vera. Quello è il mio mondo, quando sono davanti a una pagina: lì devo costruirci uno stato, una nazione, una storia, un disegno”
Vivo così la mia vita artistica, con la sensazione che da un giorno all’altro potrei non sembrare o essere più utile a nessuno. Per cui un giorno potrebbe essere meglio tacere, piantare verdure o stare a sentire cadere la pioggia. Se non sentissi più la necessità di scrivere smetterei, così come quando ho smesso di fare cinema. Semplicemente perchè non avevo più nulla da raccontare attraverso il cinema. E invece continuo ad avere qualcosa da raccontare attraverso il teatro. Forse perché è la mia prima casa, forse perché è la dimensione più democratica che esista – con 50 euro puoi fare un capolavoro, basta avere la capacità di scriverlo.
Non mi ritrovo dunque in uno stile francamente, quanto in una necessità assoluta di scrivere. E so che finché scriverò sarò vivo, quando smetterò di scrivere non so esattamente cosa sarò.
Com’è tornare a Milano dopo questi mesi forzati, in occasione di questo appuntamento?
«Sono particolarmente felice di tornare a Milano: sia, come dicevo in apertura, per la bella accoglienza del Menotti, sia per rimettere piede in una città che devo dire, dall’Expo in poi, ho la sensazione di trovare meravigliosamente cambiata. Ha preso un altro passo, in tutti i sensi.
Prima vivevo un po’ con travaglio venire a Milano. Pur vivendoci per mesi interi e avendo avuto esperienze molto belle in questa città, a cominciare dalle regie per Zuzzurro e Gaspare in numerosi spettacoli molto apprezzati, non sono mai riuscito a sentirmi veramente a casa. La trovavo lontana da me, dalle mie poetiche, mi sentivo alieno in termini di intesa intellettuale col pubblico, sentivo di presentare contenuti che in qualche modo non fossero in sintonia. Gli stessi Gori, che ho portato più di una volta, non erano apprezzati, forse perché troppo toscani. Non è che oggi io sia cambiato più di tanto, quindi deve essere cambiata Milano (sorride)».
Si ringrazia Linda Ansalone per la collaborazione.
BENVENUTI AL MENOTTI
CHI È DI SCENA?
Dal 26 al 28 aprile, ore 20.00
di Alessandro Benvenuti
Con Alessandro Benvenuti, Paolo Cioni e Maria Vittoria Argenti
Regia Alessandro Benvenuti
Produzione ARCA AZZURRA
PANICO MA ROSA
Dal diario del tempo sospeso
Dal 29 aprile al 1°maggio e 3 maggio, ore 20.00
Domenica 1° maggio ore 16.30
di e con Alessandro Benvenuti
Regia Alessandro Benvenuti
Assistente alla regia Chiara Grazzini
Elaborazioni sonore Vanni Cassori
Ideazione costume, foto e progetto grafico Carlotta Benvenuti
Disegno luci Marco Messeri
Produzione ARCA AZZURRA
UN COMICO FATTO DI SANGUE
Dal 4 al 5 maggio, ore 20.00
di Alessandro Benvenuti
Con Alessandro Benvenuti
Collaborazione drammaturgica Chiara Grazzini
Produzione ARCA AZZURRA
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https://www.instagram.com/teatromenotti/
©L.C.
Milano, 26 aprile 2022
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