di Luca Cecchelli
Uno sguardo sulla vita di quattro persone, attraversate come tutti da questi anni difficili che ci hanno messo davanti alla perdita, in tutte le sue forme. L’ultimo monologo scritto e interpretato da Vanessa Korn, in scena allo Spazio Teatro Tertulliano, stasera e domani.
“Quelli che restano”: l’ultimo monologo scritto da te, Vanessa Korn e diretto da Francesca Gemma. Cominciamo dal titolo: chi sono i protagonisti?
«Si tratta di quattro persone restate a casa, come tanti, durante il lockdown. Restate a casa a sentire e a pensare o semplicemente restate sole. I protagonisti sono quattro diversi personaggi che restano a casa in termini plot, ma idealmente, a un livello più alto, rappresentano tutti noi. “Quelli che restano”, sono anche però i sopravvissuti o coloro che ci sono rimasti vicini. E insieme a loro tutto quello che ci resta in mano dopo questo interminabile momento storico. Compresi quei desideri che non vogliono più restare nel cassetto, ma realizzarsi.
La portinaia di un condominio di Milano, immigrata dalla Sardegna; un rider che consegna cibo a domicilio, in attesa di ricevere asilo politico; un diciassettenne che frequenta il liceo classico e passa il lockdown a fare dirette su YouTube; e infine un’attrice di teatro che vive con il suo compagno, panificatore amatoriale, alle prese con un Amleto che non debutterà mai».
“Quelli che restano è uno sguardo sulla vita di quattro persone come tante, come altre. Anna, Toby, Tommaso e l’attrice abitano questi spazi
nell’anno in cui tutto sembra essersi fermato”
Quanta Vanessa c’è in questa attrice?
«Direi proprio che c’è tutta Vanessa (sorride). E la mia piccola, comune esperienza di lockdown, compresa la malattia, il ricovero e tutto il desiderio di tornare in teatro. Con una mia riflessione sul senso del fare teatro. O meglio di “essere o non essere”. Che poi è proprio il riferimento a quello spettacolo a cui l’attrice in questione rimane appesa: si tratta di quell’Amleto di cui avevo fatto la regia per i miei corsisti e che non è potuto andare in scena perché il giorno del debutto ha coinciso con quello del mio ricovero in ospedale».
“Sono persone che, come tutti noi, sono state attraversate da giorni da dimenticare.
Un anno che ci ha messi davanti alla perdita,
in tutte le sue forme”
Nel monologo si riflette sul senso della solitudine, della comunità e sulle relative priorità di ciascuno di noi. Che peso ha avuto il lockdown su di te, personalmente?
«Enorme. Forse proprio perché si diceva che ne saremmo usciti migliori. E da quello siamo partite Francesca e io, riflettendo su quella aspettativa. Cosa è rimasto di quel tempo e cosa ha seminato nella coscienza collettiva e individuale? Noi abbiamo provato a rispondere, anche se, credo, che come tutti i traumi collettivi, necessiti ancora di tempo per essere elaborato a fondo. Non volevamo comunque riportare una mera cronaca del lockdown. Semmai, come la morte del padre in Amleto o la faida tra famiglie in Romeo e Giulietta, abbiamo voluto considerare questo evento come uno spunto, un tema. Per incontrarci di nuovo e riflettere, ridere, desiderare, e capire. Sì, soprattutto capire cosa stiamo qui a fare».
“Il lockdown è stato solo un evento catalogabile come un acceleratore emotivo per tutti noi”
E anche cosa abbiamo perso, oltre a quello che resta.
«Esattamente, l’altro tema è proprio quello della perdita. Anzi, il primo pensiero da cui sono partita nella mia elaborazione è stato proprio quello della perdita. E da quella partenza, insieme a Francesca, siamo arrivate a raccontare quello che resta. Quando si perde qualcosa l’unico modo per curare o lenire il dolore è guardare a quello che resta. E provare a capire se ci si può ancora ricostruire sopra».
“I nostri personaggi restano come restano gli alberi”, hai dichiarato. In cosa trovi calzante questo paragone? Cosa significa comunicare a livello “radicale”?
«Tutto nasce dalla conferenza di una biologa: ci ha colpito molto apprendere come gli alberi comunichino anche a chilometri di distanza attraverso le radici, passandosi informazioni vitali alla propria sopravvivenza, a livello profondo. Incredibile rispetto alla consuetudinaria visione statica che ne abbiamo, o al fatto di considerarli esseri isolati per definizione. Semplicemente perché, da esseri umani che si spostano camminando e che si stringono la mano, siamo abituati a pensare che la comunicazione avvenga solo tramite un incontro o un contatto. Riflessione interessante se pensiamo che, nel momento in cui di fatto eravamo tutti isolati, in realtà abbiamo continuato a comunicare gli uni con gli altri. Tutto questo però normalmente ci sfugge perchè ci dimentichiamo di essere parte della stessa famiglia umana».
“In tutti i personaggi del monologo ritornano gli stessi temi, le stesse parole e le stesse esperienze, pur trattando di persone che non si conoscono
e che non hanno nulla in comune.
Una modalità che ci ha ricordato tantissimo
questa comunicazione sotterranea tra alberi.
È questo livello radicale che abbiamo voluto andare a cercare e raccontare”
“La comunità senza comunicazione cede il passo alla comunicazione senza comunità” dice il filosofo sudcoreano Byung Chul Han ne “La scomparsa dei riti”. Cosa ti ha colpito di questa citazione?
«Fortissima. Spiega bene quanto il lockdown abbia solo accelerato un processo. In quel momento ci siamo affidati completamente alla tecnologia e non alla comunicazione. Su questo punto abbiamo giocato e molto ci siamo interrogate nello spettacolo: fino a che punto la comunicazione è mezzo e a partire da quando diventa fine, dimenticando cioè il vero motivo per cui si comunica? Qualsiasi mezzo di comunicazione dovrebbe essere a servizio di una comunità, che si tiene insieme attraverso una rete. E invece la comunicazione rischia di prendere la china della autorefernzialità, come quello che accade sui social network, esaurendosi cioè nel fatto di avere una vetrina personale, senza sapere a chi si comunica cosa. Una pubblicazione nell’etere, senza la coscienza di rivolgersi a qualcuno di definito. Un processo che in realtà isola ancora di più dando spazio, appunto, ad una comunicazione senza comunità».
“La comunità rituale è una comunità dell’ascolto e dell’appartenenza collettivi […] e proprio là dove scompare la vicinanza primordiale si comunica in maniera eccessiva. La comunità senza comunicazione cede il passo alla comunicazione senza comunità”
Byung Chul Han
Quale è stato il lavoro con la regista, Francesca Gemma?
«Ho solo detto a Francesca che avevo l’urgenza di raccontare questa storia. Avevo bisogno di lei perché ero confusa e spaventata all’idea di farlo da sola. Soprattutto dopo il lockdown, sentivo bisogno di un sostegno. I precedenti monologhi li avevo fatti da sola, ma in questo caso ho sentito che non avevo più voglia di essere sola. Francesca mi ha diretto fin dall’improvvisazione per la costruzione dei personaggi. Un testo fresco “nato in piedi” durante le improvvisazioni stesse, nel tentativo di “cercare” queste persone, dandogli corpo e voce. Un lavoro di creazione condivisa. Francesca è stata custode è testimone di una ricerca».
Da “A parte me”, passando per “Je suis la mer” come si colloca nel tuo percorso quest’ultimo lavoro?
«Per me è sempre fondamentale rinascere ripartendo sempre dall’esigenza di mettermi in comunicazione con le persone e di condividere domande e riflessioni. Questo lavoro è un altro modo per esprimere senza pudore una prospettiva condivisibile con un pubblico che possa uscire, anche questa volta, dalla sala con una consapevolezza in più. Un altro atto catartico, come ogni volta che si va in scena. Non solo per me, ma per raccontare qualcosa che interessa a tutti. È sempre fondamentale che gli spettatori possano sentirsi coinvolti e partecipi di questa esperienza. Altrimenti c’è il rischio di portare anche a teatro quell’autoreferenzialità di cui dicevo prima sui social. Insieme a Francesca siamo state attente a far sì che ciò non accadesse. Quanto al mio personale percorso sicuramente farmi dirigere da un’attrice e da un’artista competente come Francesca ha portato maggiore approfondimento e spessore rispetto ai due monologhi precedenti. In quei casi ero più io a nudo che raccontavo qualcosa, in “Quelli che restano” è tutto ancora più teatralmente strutturato».
“Un fil rouge che attraversa i miei monologhi?
La crescita personale. Sono io che cresco e che mi faccio delle domande
sempre diverse in relazione alla vita che mi accade.
E che ho bisogno di condividere con gli altri”
QUELLI CHE RESTANO
2 e 3 dicembre 2022 ore 20.30
di e con Vanessa Korn
Poesia, voce registrata e regia Francesca Gemma
Suoni e musiche originali FA.DE. Music Production
Video Umberto Terruso
https://www.spaziotertulliano.it/stagione/spettacoli/481-quelli-che-restano.html
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